LE MOTIVAZIONI DELLA CONSULTA SUL CASO CAPPATO
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 242, depositata il 22 novembre 2019 ha rese note le motivazioni che hanno portato la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul c.d. caso Cappato, a dichiarare parzialmente incostituzionale la norma che punisce il reato di istigazione al suicidio (art. 580 c.p.).
Come noto, la questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dalla Corte d’Assise di Milano nell’ambito del giudizio promosso nei confronti di Marco Cappato – esponente del partito radicale e dell’Associazione Luca Coscioni – per aver condiviso il proposito di suicidio di Fabiano Antoniani – conosciuto dall’opinione pubblica come dj Fabo – e per averne agevolato l’esecuzione.
Il Dj Fabo, a seguito di un grave incidente stradale, era rimasto tetraplegico ed affetto da cecità permanente. Non era autonomo nella respirazione e nell’alimentazione, era esposto a continue ed acute sofferenze non completamente lenite dalle cure farmacologiche (se non mediante sedazione profonda), ma conservava intatte le facoltà intellettive. All’esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri, la sua condizione era risultata irreversibile ed aveva, perciò, maturato la volontà di porre fine alla sua esistenza, comunicandolo, dapprima, ai propri cari e, poi, pubblicamente. L’imputato aveva accettato di accompagnarlo in Svizzera presso la struttura prescelta dove, dopo aver verificato la sua decisione, il personale della struttura gli aveva fornito il farmaco che gli avrebbe provocato la morte. Ritornato in Italia, Cappato si era autodenunciato per cui era stato imputato del reato previsto dall’art. 580 c.p.. La Corte milanese ha ritenuto che la norma costituirebbe una violazione degli artt. 2 e 3 c. 1 Cost. che riconosce alla persona di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza. La Corte milanese contesta, in secondo luogo, il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 580 c.p. nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 12 anni, senza distinzione rispetto alla condotta di istigazione. Sotto questo profilo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., essendo la condotta di istigazione al suicidio certamente più grave, sotto il profilo causale, rispetto a quella di chi abbia semplicemente contribuito alla realizzazione dell’altrui autonoma determinazione di porre fine alla propria esistenza. La sentenza conferma preliminarmente le conclusioni alle quali la Consulta era già pervenuta con l’ordinanza n. 207/2018. Più precisamente la Corte aveva individuato una circoscritta area in cui l’incriminazione per istigazione al suicidio non è conforme a Costituzione. Con l’ordinanza sopra richiamata la Corte aveva ritenuto che questa violazione costituzionale non poteva essere rimossa con una semplice dichiarazione di non punibilità della condotta di aiuto al suicidio, potendosi creare una situazione di abusi nei confronti di persone particolarmente vulnerabili per cui aveva disposto un rinvio di circa un anno per consentire al Parlamento di intervenire nella materia con una modifica della norma di legge. Purtroppo, la crisi politica che nei mesi scorsi ha portato alla caduta del governo, paralizzando l’attività legislativa per diverse settimane, ha costretto la Corte Costituzionale ad intervenire di nuovo emanando una vera e propria sentenza di incostituzionalità della norma, escludendo la possibilità di incriminare chi aiuti la persona tenuta in vita da trattamento di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze, che abbia consapevolmente espresso la sua volontà di metter fine alla sua vita. In assenza dell’auspicato intervento legislativo, la Corte ha ritenuto di poter rimediare alla situazione segnalata utilizzando il “punto di riferimento” offerto dalla disciplina delle DAT relativa alla rinuncia ai trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza del paziente ed alla garanzia dell’erogazione di un’appropriata terapia del dolore e di cure palliative. In base alla legge sulle disposizioni anticipate di trattamento (cc.dd. DAT) (l. n. 219/2017), il paziente in tali condizioni può già decidere di lasciarsi morire, chiedendo l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sottoposizione a sedazione profonda continua, che lo pone in stato di incoscienza fino al momento della morte. Queste disposizioni, infatti, prevedono una “procedura medicalizzata” che soddisfa buona parte delle esigenze riscontrate, nella fattispecie, dal giudice delle leggi. In particolare, si ritiene che possano essere mutuate le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, accertando la capacità di autodeterminazione del paziente ed il carattere libero e informato della scelta espressa. Viene, altresì, ribadito l’affidamento esclusivo di questa procedura a strutture del servizio sanitario nazionale, alle quali ultime spetterà altresì di verificare le modalità di esecuzione, al fine di garantire la dignità del paziente ed evitare sofferenze a quest’ultimo. Poiché queste condizioni procedurali valgono esclusivamente per i fatti successivi alla decisione della Corte, quest’ultima ha chiarito che, per escludere la punibilità dei fatti anteriori – come quelli oggetto del giudizio a quo – occorrerà che l’aiuto al suicidio sia stato prestato con modalità anche diverse da quelle indicate, ma che diano garanzie sostanzialmente equivalenti.
Fonte: D&G
Novembre 2019
Nota a cura avv. E. Oropallo
Le motivazioni della Consulta sul caso Cappato