La lunga notte della Brexit
Adesso che aspettiamo di vedere come intende il nuovo governo affrontare la crisi economica e soprattutto come ricucire i rapporti con l’UE, non dimentichiamo che c’è un’altra vicenda su cui l’UE dovrà decidere.
E’ un problema che in Italia è stato poco sentito, anche se la stampa non ha mai cessato di occuparsene.
Parliamo della Brexit ossia dell’uscita della Gran Bretagna dall’UE che dovrebbe concludersi entro il 31 ottobre prossimo. Alla luce del giorno due sono le soluzioni: o una soft Brexit o una soluzione “no deal”. Spieghiamo meglio: o si trova una strada per un divorzio condiviso o l’opzione “no deal” ossia l’uscita senza condizioni. In questo caso, le conseguenze per il Regno Unito sarebbero molto gravi, sia sul piano economico che politico, più di quanto lo siano le conseguenze per l’UE.
In gioco per la Gran Bretagna è la stessa unità del paese perché da una parte la Scozia si prepara – in caso di “no deal”- ad un nuovo referendum per staccarsi dalla Gran Bretagna mentre resterebbe irrisolto il nodo della pacificazione nell’Irlanda del Nord – regione che fa parte del Regno Unito – e la Repubblica d’Irlanda – membro dell’UE che continua a restare nell’UE.
Al posto della libertà acquistata dopo decenni di guerra civile, ricomparirebbero in Irlanda le frontiere e potrebbe riprendere la guerra sotterranea per la riunificazione del paese – avversata oggi come in passato dalla Gran Bretagna –. Non è affatto casuale che Trump già da mesi si è detto favorevole all’uscita della Gran Bretagna, promettendo di voler sottoscrivere un accordo commerciale molto favorevole alla Gran Bretagna. Una posizione che svela il vero obiettivo del governo USA: indebolire l’UE con la quale è già in corso una guerra commerciale da diverso tempo. Gli USA non nascondono le loro mire che sono quelle di restare alla guida del mondo occidentale e di rappresentarne i reali interessi.
Ipotesi non più prospettabile perché è l’amministrazione americana che si è resa inaffidabile da quando Trump ebbe a cancellare l’accordo di Parigi sulla limitazione dell’uso dell’energia fossile. Ancora, l’amministrazione USA ha impugnato gli accordi sottoscritti dall’UE e dagli USA con Teheran per bloccare la produzione di bomba atomica mentre Trump rompeva il patto sottoscritto alla fine del secolo scorso dal presidente Reagan per gli Usa e da Putin per la Russia per la sospensione della produzione di nuovi missili balistici a testata nucleare. Insomma, lo stesso Trump che è responsabile di questo terremoto a livello mondiale, esige la piena collaborazione dell’Europa minacciando di voler estendere dazi doganali anche alle merci provenienti dall’UE. Minaccia che, se pur si realizzasse, creerebbe notevoli problemi anche per i produttori USA. Senza parlare degli altri pericoli di crisi internazionale.
Theresa May, pur ribadendo di voler uscire dall’UE, nel luglio scorso ha deciso di aderire ad un accordo di cooperazione giudiziaria promossa dall’Agenzia dell’UE (Eurojust) e, prima ancora, aveva già aderito al sistema di sicurezza europea. In effetti la May –anche poco convinta della opportunità di uscire dall’UE (non dimentichiamo che prima di prendere il posto di Cameron era stata decisamente europeista)- ha sempre cercato, con la collaborazione della Commissione europea di trovare una soluzione concertata nell’interesse del suo paese.
Se il tentativo è fallito, è anche perché il partito conservatore – di cui faceva parte – le aveva fatto una lotta aperta per le “concessioni” che aveva fatto all’UE – soprattutto per quanto riguarda la situazione irlandese e anche perché anche il partito laburista di Corbyn non inizialmente non era contrario alla Brexit. Quando l’ultimo accordo sottoscritto dalla May con la Commissione nell’aprile scorso per la terza volta non è stato approvato dal Parlamento inglese, alla May non è restato altro che dimettersi dalla carica di primo ministro e successivamente anche di uscire dal partito conservatore.
Nel maggio scorso, dunque, ella annunciava le sue dimissioni esprimendo “rammarico” per non essere riuscita ad attuare la Brexit.
“Ho fatto il possibile – dichiara la May– per convincere i deputati a sostenere quell’accordo ma purtroppo non sono stata capace di farlo. Ho provato a farlo tre volte. Credo che sia giusto perseverare”. Purtroppo, la debolezza della May all’interno del partito, è una delle cause dell’insuccesso.
D’altra parte, la May le aveva tentate proprio tutte le carte, addirittura offrendo al partito laburista di collaborare per la riuscita del piano. Offerta che Corbyn ha fatto cadere anche perché l’opzione di nuove elezioni, con un partito Tory in crisi, gli è sembrato più opportuna. Una scelta dunque dettata soprattutto dalla prospettiva del voto, senza tener conto dei reali interessi della Gran Bretagna. E’ paradossale, come vedremo oltre, che Corbyn si sia – nel corso di pochi mesi – riconvertito alla tesi europeista, addirittura chiedendo un nuovo referendum per annullare il precedente che aveva – di stretta misura – segnato la vittoria dei fautori dell’uscita della Gran Bretagna dall’UE.
La mancata ratifica dell’accordo da parte di Westminster costringeva il governo inglese a chiedere all’UE una nuova proroga per chiudere le trattative e a subire anche l’onta di dover partecipare alle elezioni europee, tenuto conto che ancora oggi –e fino alla conclusione della procedura Brexit – la Gran Bretagna continua a far parte dell’UE per cui deve rispettare tutti gli obblighi che ne derivano. In effetti, dopo la richiesta di parte inglese, l’UE ha concesso un rinvio al 31 ottobre prossimo per cui è stato scongiurato il peggio, ovvero una uscita senza regole di Londra dall’Unione.
Dopo aver tanto biasimato per incapacità il primo ministro dimissionario Theresa May, è entrato in gioco ancora una volta Trump che si è schierato platealmente per la Brexit. “Dal punto di vista di chi crede nel progetto europeo – scriveva Massimo Rea sulle pagine de La Repubblica – due principali lezioni politiche da questa scorreria londinese di Donald Trump”. “La prima domanda da porsi è se sia ancora utile fare sforzi per trattenere il Regno Unito nell’Unione”.
La seconda lezione dell’intervento americano è che l’obiettivo strategico degli USA è di impedire la nascita di un’entità geopolitica unitaria in Europa che possa allontanarsi dalla NATO.
L’ultimo intervento della May, prima di dimettersi, è stato al vertice straordinario del 10 aprile del Consiglio di Europa nel corso del quale riesce a ottenere dall’UE un nuovo rinvio di circa sei mesi portando il termine finale della trattativa al 31 ottobre, data ritenuta definitiva dal negoziatore europeo Barnier per l’uscita dall’UE dalla Gran Bretagna. Si riapre dunque la prospettiva di un secondo referendum anche se si tratta di un’ipotesi ritenuta assai poco probabile perché equivarrebbe a calpestare la volontà espressa nel giugno 2016. Questa operazione ignora che il referendum indetto da Cameron era consultivo e non previsto da alcuna norma costituzionale.
Sul piano giuridico il responso non vincolava il governo, né il Parlamento. Ancora, sul piano politico, anche a ritenere vincolante l’esito del referendum, difronte ad un accordo considerato più dannoso del previsto o alla prospettiva di no-deal contrariamente non preventivato, il governo poteva essere legittimato a consultare nuovamente l’elettorato. Non mancano i precedenti in Europa. Basta pensare alle imbarazzanti bocciature irlandesi del Trattato di Nizza nel 2001 e di quello di Lisbona nel 2008 superate solo grazie a nuove consultazioni popolari, nel 2002 e 2009. Se la G.B. decidesse per un nuovo referendum, esclusa l’ipotesi del no-deal, l’alternativa sarebbe o di uscire in base all’accordo già approvato dai 27 o una variante concordata con i laburisti oppure, molto più semplicemente, di restare nell’UE considerato che fino ad oggi la Gran Bretagna resta ancora membro dell’UE e non si riesce a capire – perlomeno apparentemente – quali siano le ragioni per non fare un passo indietro a meno che la GB non sogni ancora un ritorno al suo passato di grande potenza.
Boris Johnson promette di ridarle fiducia in se stessa ma se fallisce rischia di trasformarla in Piccola Inghilterra anche se, a parte suoi, l’unico a credere platealmente in lui è il suo amico, alter ego, Donald Trump, che ha dichiarato di essere impaziente di giungere ad un accordo commerciale con la Gran Bretagna, ovviamente, estremamente favorevole agli Stati Uniti.
Tony Blair, già premier laburista per più di dieci anni, anche se preoccupato dall’approccio populista di Johnson, si dice certo che Johnson sarà costretto a rivolgersi nuovamente al popolo sulla Brexit. “Un nuovo referendum – dichiara – è più probabile perché Boris ha piacere di andare al voto prima di aver portato a termine la Brexit”. Come vedremo, gli sviluppi ulteriori della vicenda non vanno proprio in questa direzione. La prima mossa di Johnson come premier è di licenziare i pochi ministri europeisti e moderati del governo May, affidando i ministeri a deputati euroscettici e favorevoli alla Brexit. Non si tratta di un normale rimpasto governativo ma di una brutale epurazione politica. In un momento in cui egli dovrebbe tenere unito il partito conservatore per cercare di sbloccare la trattativa con l’UE, egli sembra minacciare o un’uscita dall’UE senza accordo o l’ipotesi di nuove elezioni prima della Brexit, dichiarando di credere fermamente di trovare un accordo con l’UE mentre l’Europa ha già fatto capire che le vaghe proposte sull’annoso confine irlandese sono irrinunciabili. Nel vertice a Biarritz, tenutosi alla fine del mese scorso, Johnson ha mandato un messaggio chiaro ai 27. Per evitare un no-deal sulla Brexit, l’Unione europea dovrà “sbarazzarsi” del back-stop nell’Irlanda del Nord contenuto nell’ultimo accordo sottoscritto dalla May. L’idea di abolire il back-stop, la misura richiesta come garanzia che la frontiera tra Irlanda del Nord britannica e repubblica indipendente d’Irlanda resterà aperta, è una condizione irrinunciabile per l’Europa. Macron ha commentato che “su quel confine sono ancora forti i ricordi della guerra…sarebbe da irresponsabili riaprire quelle tensioni”.
Michel Barnier – negoziatore per l’UE – ha ricordato che l’Europa era pronta ad esaminare nuove proposte dal nuovo leader del Regno Unito a patto che fossero “realistiche, operative e compatibili con i principi dell’UE”. La risposta del premier inglese non si è fatta attendere. Rientrato in patria, egli ha chiesto alla Regina di sospendere i lavori del Parlamento per forzare la Brexit. Le opposizioni laburiste e lib-dem in testa hanno gridato “al golpe costituzionale”.
Lo speaker della Camera dei Comuni ha commentato: “Questo è oltraggio alla Costituzione per impedire ai deputati di dibattere sulla Brexit. Ma siamo in una democrazia parlamentare!!”. Nel pomeriggio del 28 agosto, mentre la sterlina va a picco e Trump twitta a sostegno per il “grande Boris”, Corbyn chiede inutilmente un incontro con la Regina ma senza avere risposta mentre sempre nella stessa giornata la leader dei conservatori scozzesi, Ruth Davidson, si dimette, in protesta contro Johnson. “E’ la prima e inquietante crepa del Regno di Boris” commenta La Repubblica del 29 agosto.
In un’intervista al giornale “La Repubblica lo storico William Dalrymple giudica che “ciò che ha fatto Boris è profondamente antidemocratico”. Contrapporre il popolo al Parlamento è un azzardo clamoroso “difronte ad un premier che forza le regole è necessario che le opposizioni difendano strenuamente la nostra democrazia plurisecolare. E’ il momento decisivo” – aggiungendo che in caso di no-deal anche il Regno Unito potrebbe spaccarsi definitivamente dopo secoli. Commentando “l’incredibile golpe all’inglese del premier”- su La Repubblica del 29.8 – Enrico Franceschini parla di forzatura istituzionale mentre Corbyn usa l’espressione “una minaccia alla democrazia”. “Di forzature democratiche, di questi tempi – scrive ancora Franceschini – naturalmente ne capitano anche altrove: da Trump che cerca di governare a colpi di twit alle tentazioni autoritarie di Orban in Ungheria, fino agli appelli in casa nostra “ai pieni poteri” ma fa impressione assistervi nella culla del diritto”. “Se non viene fermata questa iniziativa – commenta senza mezzi termini Nicola Surgeon – premier del governo autonomo scozzese – questo verrà ricordato dalla storia come il giorno in cui finisce la democrazia britannica”. Ma ancora più preoccupante per Johnson, che forse non lo aveva previsto, è la valanga di ricorsi che si abbattono sulla sua decisione. Il Tribunale di Edimburgo ha respinto per ora un ricorso di parlamentari bi-partisan (la decisione è prevista per domani). Ma c’è un altro ricorso presentato alla Corte Suprema britannica dall’avvocatessa Gina Miller, che già due anni fa, con un’altra sentenza riuscì ad imporre che la Brexit fosse sottoposta ad un voto del Parlamento.
A Miller si è unito niente meno che l’ex premier John Major, leggenda del partito conservatore ed europeista. Sempre il 29.8 si svolgeva un’imponente manifestazione contro Johnson a Londra ed in tutto il paese. Dopo la pausa estiva, il 3 settembre riapre la Camera dei Comuni: in serata oltre 20 deputati conservatori, compreso l’ex Ministro delle Finanze Hammond fino al nipote di Churchill Sir Nicholas Suamez, si ribellano clamorosamente contro il governo Johnson sospettando che i progressi con l’UE per un accordo sulla Brexit sono soltanto una farsa.
I congiurati Tory si sono uniti ai laburisti e ai lib-dem facendo perdere a Johnson il controllo del Parlamento (i deputati sono passati da 328 a 301) per approvare una legge che obbligherebbe il premier a chiedere all’Unione Europea l’ennesimo rinvio della Brexit fino al 31 gennaio 2020, sempre che il governo non avesse un accordo entro il 19 ottobre, e così scongiurare ancora una volta il no-deal.
E’ una pesante sconfitta per il premier che replica: “Così ci mozzate le gambe! Ci costringete ad elemosinare! Volete bloccare la Brexit! Ma il 31 ottobre si esce comunque!”. La legge contro il no-deal passa grazie ai ribelli Tory espulsi. Johnson voleva le urne il 15 di ottobre ma il partito laburista che pure agognava di tornare alle urne ha chiesto che prima bisogna scongiurare il rischio di no-deal e poi passare a votare. Johnson perde dunque la sua battaglia uscendo definitivamente sconfitto perché l’uscita brutale e senza accordo di Londra dall’UE comporta conseguenze economiche potenzialmente gravi anche se la Banca d’Inghilterra ha ridimensionato i suoi passati allarmi: 5,5% in meno di PIL invece di 8. L’unica speranza di Boris resta che la Camera dei Lord possa bocciare la legge votata ai Comuni. Diversamente, egli dovrà richiedere all’UE un nuovo rinvio se il governo non avrà un accordo di uscita controfirmato dagli europei entro il 19 dello stesso mese.
Quali possono essere gli sviluppi di questa crisi? E’ assai difficile prevederlo. Se Johnson, contrariamente alle sue affermazioni, sarà costretto a richiedere un nuovo rinvio all’UE, ebbene è da verificare se l’UE sia disposta ancora a concederlo, in quanto il 31 di ottobre era il termine finale entro il quale chiudere la Brexit dopo tre anni e oltre di trattative che si sono arenate per la caparbia volontà del governo inglese di non cedere sulla questione della frontiera al confine fra le due parti dell’Irlanda. In caso di no-deal si aprirebbe una vera e propria crisi istituzionale per la Gran Bretagna. Intervistata la settimana scorsa da La Repubblica la leader del partito indipendentista scozzese Nicola Surgeon ha previsto senza esitazioni la dissoluzione del regno di Elisabetta II. A far crollare l’unione tra Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, sarà la Brexit: l’uscita dall’UE che il primo ministro Boris Johnson promette di portare a compimento entro il 31 di ottobre. Un’ipotesi giudicata catastrofica da tutti gli esperti, principalmente per le sue conseguenze economiche ma per i brexitiani se, il prezzo per lasciare l’Europa è perdere la Scozia e gli altri, si dicono pronti a pagarlo.
Ironicamente, l’inviato da Londra de “La Repubblica” conclude ricordando che la regina in questi giorni sta trascorrendo le vacanze nel suo adorato castello di Balmoral in Scozia. Dove potrà andare in ferie l’estate prossima? Alla fine della settimana scorsa, Boris Johnson si è preparato a partire per la Scozia: sembra che voglia far partire da lì la campagna elettorale promettendo centinaia di milioni di investimenti pubblici anche se il suo partito, a nord del Vallo di Adriano, è ormai allo sbando. Sembra anche che, di ritorno dalla Scozia, e cioè oggi, il premier intenderebbe dimettersi per costringere il partito alle urne. Allo stato attuale, forse solo un governo alternativo potrebbe risolvere lo stallo (e qui il cambio della guardia del governo in Italia potrebbe dare più di un suggerimento al premier inglese) della trattativa con l’UE ma c’è un altro scenario possibile nel caso in cui, rifiutasse di chiedere un rinvio della Brexit, nonostante la legge approvata la settimana scorsa dal Parlamento.
“Nessuno è al di sopra della legge”– ammonisce Corbyn – per cui il premier potrebbe finire in prigione se si rifiutasse di farlo.
Per evitare un’ipotesi del genere, gli restano solo due strade: o quella di dimettersi, aprendo la strada ad un nuovo governo formato da tutti i partiti dell’opposizione oppure negoziare in extremis un accordo con l’UE e presentarlo in Parlamento quando tornerà a riunirsi dopo il 14 ottobre, al termine delle 5 settimane di sospensione decretate dallo stesso Johnson il quale si è affrettato a dichiarare che non intende farlo “preferirei essere morto in un fosso, che fare una richiesta simile a Bruxelles”, le sue parole pronunziate durante un comizio nei giorni scorsi. Comunque vadano le cose, ci vorranno anni per assorbire le conseguenze di questa intricata vicenda, anche nel caso improbabile ma non impossibile che essa si concluda con un rientro nell’ovile comunitario.
Ma bisogna essere coscienti che un danno già lo ha prodotto in quanto, sia l’UE che la GB non usciranno del tutto indenni da un eventuale divorzio che lascerà senza alcun dubbio un gusto amaro da una parte o dall’altra. In attesa degli eventi che si produrranno nei prossimi giorni, non riusciamo a capire perché fino ad oggi la Gran Bretagna – con o senza referendum – non abbia richiesto di tornare a far parte dell’UE, ricordando che l’iniziale referendum non aveva alcun valore vincolante per il governo, che esso era stato vinto dai fautori dell’uscita sulla base della diffusione di false notizie che hanno certamente influito sull’esito del referendum, che è stato vinto si dai brexitiani, ma solo con una scarsissima differenza di voti. E soprattutto ricordando che l’esito del referendum nelle grandi città e a Londra in particolare era stato favorevole al remain. In fondo, sarebbe ancora oggi una manovra semplice ed efficace per allontanare lo spettro del nazionalismo che incombe sul continente, per rafforzare l’UE e dare spazio ad una nuova stagione di riforme capaci di realizzare fino in fondo la prospettiva degli Stati Uniti d’Europa. Non nascondiamo l’esile speranza che questo possa ancora avvenire.
Un’organizzazione che – con tutti i suoi limiti – ha rappresentato per oltre 60 anni una sicurezza per i popoli europei, la libertà per centinaia di milioni di cittadini europei di sentirsi parte di un progetto unico.
Un’Europa dei popoli che possa contribuire alla salvezza di un pianeta che rischiamo di distruggere in nome di uno sviluppo senza fine.
I giovani che oggi stanno indicando la strada ai nostri governi di garantire un progresso che sia capace di collegarsi alla difesa ambientale, alla difesa di tutte le specie viventi, ricordando che uno sviluppo sostenibile è la sola strada per scongiurare la catastrofe mondiale che rischia di fermare per sempre la vita su questo pianeta, così come l’abbiamo conosciuta.
Possibile che tutto ciò venga sacrificato agli egoismi di una nazione, di un partito, di un dittatore da operetta che compare spesso nel panorama europeo? Credo che nei prossimi giorni la parte sana di questo continente, a partire dai giovani, abbia ancora il tempo di dare il ben servito a Johnson e soci e riprendere con l’UE un percorso interrotto, ma non concluso, per garantire un futuro migliore alle prossime generazioni.
9/09/2019
Avv. E. Oropallo