La grande utopia: l’abolizione del carcere
Sicuramente, in una stagione come la nostra in cui il valore della dignità dell’uomo è stato calpestato e vilipeso senza alcun pudore, può sembrare ai più, davvero incredibile affrontare questo tema. Ma – riprendendo un articolo pubblicato sulla rivista “Internazionale” di giugno scorso – va ricordato che il carcere è uno specchio della società cd. libera. “Nel caso dell’Italia …l’immagine riflessa è tra le peggiori in Europa. Per tasso di affollamento è il secondo paese in Europa, preceduto da Cipro e seguito da Ungheria e Turchia. Ed è il settimo per numero di detenuti: ben 60.000 persone sono detenute oggi nelle prigioni italiane, 10.000 in più di quelle che esse possono contenere. Il tasso di affollamento è del 120 percento ma in strutture come quelle di Taranto si raggiunge anche il 200 percento. Una delle conseguenze è che dal 2000 ad oggi in carcere si sono suicidate ben 1.065 persone”. Questi dati costituiscono un segnale di allarme sia per l’aumento della violenza tra i detenuti ma anche per le aggressioni ai danni del personale di controllo. Nondimeno, non si può fare a meno di segnalare sempre più frequenti episodi di violenza da parte degli agenti penitenziari nei confronti dei detenuti. Insomma, siamo difronte ad una vera e propria polveriera che può esplodere da un momento all’altro. Una realtà che si fatica a tenere sotto controllo anche se non sono più i tempi delle rivolte nelle carceri che scoppiavano nei luoghi di reclusione soprattutto legate alle battaglie sociali che si combattevano fuori dal carcere. Per quanto riguarda l’Italia, l’affollamento è in continua crescita soprattutto in assenza di misure deflattive come le pene alternative e l’utilizzazione del ricorso al carcere come extrema ratio. Ricordiamo che, dopo la sentenza Torreggiani con cui la Corte EDU condannò l’Italia per i “trattamenti inumani e degradanti” causati dal sovraffollamento carcerario, la stessa Magistratura ebbe a raccomandare alle Procure della Repubblica di ricorrere alla misura della carcerazione solo nei casi estremi, usando sia il sistema della sostituzione delle pene carcerarie con quelle pecuniarie sia con altri sistemi alternativi. Raccomandazione che cadde nel vuoto, anzi, a causa del peggioramento delle condizioni di vita nella società cd. libera, l’apparato politico si è ben guardato dal porre in essere una riforma che potesse alleggerire il ricorso al carcere. Si aggiunge che il fenomeno dell’aumento dei reclusi è in controtendenza alla diminuzione dei reati non solo in Italia ma in tutta l’Europa. E ciò è dovuto soprattutto al peggioramento delle condizioni generali di vita, all’aumento della povertà, ai tagli allo stato sociale. Secondo l’antropologo francese Didier Fassin “nasce la ossessione per la sicurezza e la punizione”. E la classe politica, che è pressata dalla domanda di sicurezza che proviene dalla società, non fa altro che incrementare il ricorso alla carcerazione, nella prospettiva illusoria di creare un solco tra i criminali e la società civile. A fare le spese di questa politica di repressione sociale sono soprattutto i più deboli, i poveri, gli emarginati, contro i quali si sfoga la carica di violenza di una società instabile e segregazionista. Contro questo uso del carcere come arma classista e di vendetta sociale, già Turati alla Camera dei Deputati – più di un secolo fa – diceva che “le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolito la tortura, ma i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di torture tra le più raffinate…”. E Altiero Spinelli scrive sulla rivista “Il Ponte” nel 1949: “più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale!”. Non molto è cambiato oggi rispetto al secolo scorso. Ancora oggi ci sono luoghi comuni duri a morire che alimentano la spirale segregazionista. Il primo è che in galera ci siano solo persone pericolose: in effetti, gli assassini, i mafiosi e i grandi trafficanti di droga – per parlare dei reati più gravi – sono a malapena il 10% della popolazione carceraria. Un altro è che la galera sia un buon deterrente ed è vero il contrario perché i reclusi sono destinati, in una percentuale elevatissima, più del 68 percento, a commettere nuovi reati. La sentenza Torreggiani, emessa dalla Corte EDU nel 2013 è stata di particolare importanza sotto due aspetti: da un lato per aver evidenziato la sistematicità del problema del sovraffollamento in Italia e dall’altro per aver accertato l’assenza in Italia di un valido strumento per la tutela dei diritti dei detenuti. In base a queste considerazioni, i giudici di Strasburgo assegnarono al Governo Italiano un anno di tempo per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario e per garantire la tutela dei diritti dei detenuti. Ciò ha costretto lo Stato italiano a trovare percorsi alternativi al carcere. Ma si è trattato di una breve stagione perché, cambiata la sensibilità politica, si è continuato a fare ricorso al carcere addirittura applicando misure emergenziali previste solo per reati gravi anche ad altri reati come la corruzione. Insomma, ha ripreso vigore la politica segregazionista ancora una volta con l’illusione di risolvere il malessere profondo di questa società. Senza pudore di violare ancora una volta in modo scandaloso, non solo la norma costituzionale (art. 27 Cost.) che prevede che la reclusione deve tendere alla rieducazione di chi subisce per un certo periodo di tempo la privazione della libertà. In effetti, non si può aggiungere a questa pena una ulteriore pena determinata dalla privazione dei diritti fondamentali dell’individuo che vanno riconosciuti anche quando l’individuo sia sottoposto ad una misura restrittiva. Sono ripresi pertanto a giungere innanzi alla Corte EDU migliaia di ricorsi da parte dei reclusi che subiscono nelle carceri italiane la violenza del sistema che nega al cittadino – pur recluso – di poter godere di tutti i suoi diritti, che non siano incompatibili col suo stato di detenzione. Proposte, ne vengono fatte tante sulla carta, ma il problema è che il sistema si inceppa quando esse non vengono attuate o quando – come riflesso della crisi sociale – si infrange contro l’applicazione formale della norma da parte della Magistratura e continua a fare largo uso della carcerazione preventiva – o a sentenza emessa – applica con parsimonia la norma che prevede la sospensione condizionale della pena. Recentemente, in occasione del XX Congresso Mondiale dell’Associazione Internazionale del diritto penale, anche il Papa ha fatto sentire la propria voce ricordando all’avvocatura – ma anche ai magistrati – che “la sfida …è quella di contenere l’irrazionalità punitiva, l’affollamento e le torture nelle prigioni, l’arbitrio e gli abusi delle forze di sicurezza, la criminalizzazione della protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali”. Ancora nel discorso si critica e si chiede di “ripensare sul serio all’ergastolo”. “La riflessione del Papa – come scrive Luigi Manconi su “La Repubblica” del 29 novembre u.s. – incontra la teoria dei diritti umani e dello Stato di diritto, che rappresenta il punto più alto del pensiero giuridico contemporaneo. Ne consegue un paradosso: nella fase attuale di disordine mondiale, la sola voce dotata di autorità morale che richiami il principio universale è quella di un leader religioso”. “Nonostante la sua intollerabilità, il carcere è ancora oggi l’istituzione prevalente del sistema penale”. Non solo in Italia ma è quì da noi che ne ha l’indiscussa centralità”. “Se in Italia l’82% dei condannati sconta una pena in carcere, in Francia e in Gran Bretagna la percentuale scende al 24 percento e uno degli indici di recidiva più basso è ottenuto in Svezia soprattutto grazie al lavoro all’esterno e con pene non carcerarie”. Mentre in Italia il ricorso alla reclusione domiciliare è una eccezione. “Negli altri ordinamenti – invece – la categoria delle sanzioni non detentive è notevolmente più ampia che da noi…è una condizione indubbiamente paradossale, soprattutto alla luce del sovraffollamento delle nostre carceri che in altri paesi ha portato a misure ben più incisive. Negli USA ad esempio nel 2012 la Corte Suprema ha ordinato allo Stato della California di liberare 46.000 detenuti; in Germania, nello stesso anno, la Corte Costituzionale ha legittimato le “liste d’attesa penitenziarie” che impediscono l’esecuzione della pena in condizioni di sovraffollamento tali da violare la dignità ..che non può essere subordinata alle esigenze di prevenzione generale”. In base a queste ultime citazioni (tutte riprese dal libro “Abolire il carcere”) ndr) in conclusione “il carcere è un’istituzione insostenibile sotto il profilo giuridico e politico, sociale e finanziario. Deve essere quindi abolito e sostituito da altre misure, capaci di soddisfare la domanda di protezione dei cittadini, quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al termine della pena – che è esattamente quello che il carcere, non solo per cause contingenti, impedisce”. Insomma, nella prospettiva di questo obiettivo, oggi stesso la pena non detentiva dovrebbe costituire la regola, ricorrendo al carcere solo nei casi in cui la pericolosità sociale giustifichi una detenzione temporanea. Ovviamente, l’obiettivo massimo può essere raggiunto solo grazie ad una serie di riforme del diritto penale che applichi la pena detentiva solo quale extrema ratio. Se teniamo conto delle pulsioni sociali che l’Italia sta attraversando in questo tormentato ciclo storico, se guardiamo all’immobilismo e all’arretratezza anche culturale della nostra classe politica, temiamo che sia ben poco credibile che si possa invertire questa tendenza che affonda le sue radici proprio nella incomprensione del fenomeno criminale, adottando la segregazione come sistema punitivo nei confronti dell’individuo cui ben raramente viene riconosciuto il diritto di poter essere reintegrato nel corpo della società. Ci sia consentito riportare alcune osservazioni formulate nella post-fazione al libro sopra accennato di cui consigliamo la lettura agli addetti ai lavori – anch’essi molto spesso – privi di una comprensione sociale del fenomeno – ma anche ai cittadini che vogliono avere una informazione corretta e che non vogliono accettare la voce della propaganda politica, spesso falsa e menzognera. Scrive così Gustavo Zagrebelsky: “il crimine determina una frattura nelle relazioni sociali. In una società che prenda le distanze dall’idea del capro espiatorio, non dovrebbe il diritto mirare a riparare la frattura? Da qualche tempo si discute di giustizia riparativa, restaurativa, riconciliativa….Si tratta di una prospettiva nuova e antichissima al tempo stesso che potrebbe modificare profondamente le coordinate con le quali concepiamo il crimine ed il criminale: da fatto solitario a fatto sociale; da individuo rigettato dalla società ad individuo che ne fa comunque sempre parte pur rappresentandone un aspetto patologico”. In definitiva, è necessario passare da una concezione della pena intesa come espiazione ad una concezione laica del fenomeno che esalta il valore della vita e della dignità umana, che preveda l’inclusione e non l’isolamento dell’individuo dal corpo sociale e ciò non può avvenire se non attraverso un sistema di giustizia riparatoria e non più penale.
10/12/2019
La grande utopia.L’abolizione del carcere