IL RUGGITO DEL CONIGLIO
Intervenendo alla convention dei conservatori a Manchester domenica scorsa, mentre tutti i delegati erano a cena, il primo ministro Johnson ha confermato che la Gran Bretagna uscirà dall’UE il 31 ottobre “senza se e senza ma” dimenticando che il Parlamento – prima che il governo ne decretasse la sospensione- è riuscito a far votare una legge che impone il 19 ottobre il rinvio della Brexit se Londra non avrà trovato un accordo con l’UE. Non ha rinunziato il premier inglese al suo linguaggio bellicoso parlando di “opposizione collaborazionista” di “Parlamento di zombi” non risparmiando nessuno dei suoi nemici politici e così Corbyn – segretario del partito laburista – è “un pollastro al cloro” mentre agli scozzesi ha confermato di opporsi al referendum per l’indipendenza definendo il premier Sturgeon un “salmone” che vuole soltanto “riportarvi in UE, rendervi di nuovo schiavi dell’Europa e incastrarvi nell’euro”. Nel discorso ufficiale il premier britannico annuncia una nuova proposta di accordo sulla Brexit “E’ l’offerta finale –scrive La Repubblica del 3 ottobre- di Boris all’Europa, l’ultimatum per scongiurare la pericolosa uscita senza accordo. Prendere o lasciare!” dando tempo fino a lunedì – ossia oggi – alla UE di dare una risposta. Altrimenti si andrà dritti verso l’ipotesi di “No deal” ossia un’uscita senza condizioni. In effetti non si tratta di una nuova proposta ma la riproposizione della stessa lanciata dalla May che la Commissione europea aveva già rifiutato. L’obiettivo di Johnson – come scrive sempre La Repubblica – “è quello di rimuovere il backstop, la clausola richiesta dall’UE nell’accordo già siglato con la May per cui tutto il Regno Unito rimarrebbe agganciato a tempo indeterminato all’unione doganale UE finché non si trovi una soluzione definitiva sul confine irlandese la cui fragile pace è tenuta in piedi dall’assenza di frontiere commerciali e dagli accordi del Venerdì Santo (1998) che pose fine al conflitto tra la Repubblica d’Irlanda (cattolica) che fa parte dell’UE e l’Ulster – ossia l’Irlanda del Nord (protestante) che fa parte della G.B.”. Se si rompesse questo equilibrio, è evidente che a farne per prima le spese sarebbe proprio la G.B. perché c’è il rischio che la fragile pace raggiunta dopo tanti anni di sangue e di sofferenza della popolazione civile possa spezzarsi con la prospettiva di chiudere le frontiere tra le due parti e con il ritorno dei soldati inglesi a presidiarle. La proposta alternativa del governo inglese è che, a Brexit avvenuta, l’Irlanda del Nord esca dall’Unione doganale insieme al resto della Gran Bretagna ma allo stesso tempo si prevede che la libertà di circolazione commerciale tra GB e UE, almeno fino al 2020, con il Regno Unito a fare un primo filtro aggiungendo un confine invisibile all’interno del paese. Questo status potrebbe essere rinnovato ogni 4 anni solo con il consenso del Parlamento nord-irlandese, tra l’altro chiuso nel 2017. L’UE e l’Irlanda non ritengono soddisfacente la proposta perché non è adeguatamente protetto il mercato unico UE, perché potrebbe essere necessario riposizionare i checkpoint al confine tra Irlanda e Ulster ma soprattutto non si accetta che unilateralmente la GB – tramite il Parlamento di Belfast – possa staccare la spina a questo potenziale accordo. Che cosa ci si può aspettare domani, è difficile dirlo. Innanzitutto la Regina Elisabetta, che ha controfirmato il provvedimento di sospensione del Parlamento che le aveva sottoposto il premier e che è stato poi ritenuto illegittimo dalla Suprema Corte britannica, grazie ai suoi poteri di Capo dello Stato, potrebbe “licenziare” il Primo Ministro. E sarebbe la prima volta nella storia dell’Inghilterra. La seconda ipotesi sarebbe che l’UE si pieghi alle condizioni dettate da Londra ma è un’ipotesi poco realistica perché si metterebbero in discussione le clausole del Trattato di adesione all’UE, valide per tutti i paesi firmatari e ciò costituirebbe un precedente molto grave soprattutto alla luce dell’instabilità politica che sta caratterizzando questo periodo. La terza ipotesi sarebbe quella che se il premier non presenti entro il 19 di ottobre una nuova proposta all’UE, sarà costretto a chiedere un rinvio della Brexit almeno fino al 31 gennaio. Se non lo facesse, potrebbe incorrere nei rigori della legge, rischiando anche di finire in carcere. Se avvenisse invece che vi sia un rinvio, si potrebbe ipotizzare che, persa la maggioranza in Parlamento, Johnson sia costretto a dare le dimissioni. In tal caso, potrebbe essere formato un governo bi-partisan che – oltre ad indire nuove elezioni – facesse un nuovo referendum che potrebbe azzerare la situazione, riportando la GB in Europa o optare per una “soft Brexit”. E’ l’ipotesi più corretta sotto il profilo istituzionale anche se il partito laburista già sta mettendo le mani avanti dichiarando – per bocca del vice leader Mc. Donnell – che ha dichiarato di opporsi a tale ipotesi in quanto “la norma è che il leader del principale partito dell’opposizione prenda il potere”. A domanda del giornalista che chiede se ciò fosse l’unica opportunità per evitare il “no deal” seccamente risponde “no, i lib-dem (liberal democratici e radicali) devono capirlo e sostenere Corbyn premier altrimenti la colpa del no deal sarà loro”. Insomma, se il Labour Party si irrigidisce su questo punto, è facile che la polveriera inglese esploderà e nessuno potrà dirsi estraneo a questo disastro. A noi europei non resta che assistere impotenti a questo ultimo atto della tragedia, a meno che, ancora una volta, non sopravvenga una soluzione pasticciata solo per salvare il salvabile. Ma non si vede che cosa ci sia da salvare se la GB non è insensibile alle lusinghe dell’alleato storico USA che, per bocca di Trump, si è pronunciata a favore dell’uscita della GB dall’UE, se la guerra dei dazi inaugurata sempre dall’amministrazione Trump provoca la giusta reazione dell’UE, se a segnare il destino dei popoli siano sempre gli Stati-nazione, gelosi della loro sovranità nazionale. Dovremo aspettare impassibili un nuovo bagno di sangue? Perché si fa presto a trasformare le guerre commerciali in conflitti di guerra vera e propria, sempre in nome della salvezza della patria e della difesa della propria sovranità nazionale. E questo, dopo un secolo di guerra e dopo un inizio di secolo che non ha visto un sol giorno arrestarsi la macchina di guerra che ancora si combatte in tanti angoli del mondo, non possiamo dimenticarlo. Serve una politica europea che sia pronta a sacrificare gli interessi nazionali, che sia pronta ad ascoltare la voce della gioventù europea, che vi sia un concreto movimento di idee e di lotta che sappia unire tutte le forze disponibili in campo per arrestare questa lugubre marcia verso un ennesimo massacro mondiale.
Ottobre 2019