IL GIUDIZIO DI SALOMONE
Se ricordate, ci siamo già occupati del caso del piccolo Eitan, unico superstite della tragedia del Mottarone che è costata la vita nell’estate scorsa a quattordici persone tra cui tutti i componenti della famiglia Eitan e che il Tribunale di Pavia aveva affidato temporaneamente agli zii paterni e precisamente alla sorella del padre che vive in Italia. Doveva trattarsi di un affido temporaneo senza dimenticare che il bambino vive da anni in Israele. La zia affidataria, benché il bambino fosse israelita, lo aveva iscritto anche ad una scuola cattolica, neppure quella laica, manifestando così l’intenzione di tenerlo con sé in Italia. Gesto che non è stato apprezzato dai nonni materni del bambino, che sono anch’essi israeliani e che si erano recati in Italia sia per assistere il minore quando era ricoverato in ospedale, sia per riportare indietro le bare dei propri cari e ritornare in Israele con il bambino appena sarebbe stato meglio. Per visitare il minore – lamentava la nonna – era stata obbligata a ricorrere al Tribunale dei Minori che aveva concesso loro due visite alla settimana di due ore e mezza. Anche questa limitazione ha sollevato il timore dei nonni che la zia paterna intendesse trattenere in Italia il minore. Qualcosa più di una sensazione per cui entrambi si erano rivolti al Tribunale per chiedere che il minore fosse autorizzato a ritornare nel suo paese di origine. Ma si sono trovati dinanzi ad un muro perché il Tribunale dei Minori addirittura, aumentando le misure di controllo del minore affidato alla zia paterna, confermava il provvedimento con il quale limitava l’incontro dei nonni con il nipotino, laddove dal punto di giuridico, in base alle disposizioni della legge internazionale, il minore aveva il diritto di rientrare nel paese da cui era arrivato. La decisione di allungare i tempi della permanenza in Italia del minore effettivamente lasciavano il dubbio che si volesse che il bambino restasse in Italia. Quale impedimento poteva giustificare una sua ulteriore permanenza in Italia? E qui la vicenda si complica perché il nonno del minore, profittando di un incontro già programmato con lo stesso, mettendo in scacco la polizia che lo teneva d’occhio da molto tempo prima, riesce a riportarlo in Israele. In effetti, dopo la strage del Mottarone, il nonno aveva noleggiato per i suoi spostamenti un’auto sulla quale la polizia aveva installato un GPS. Una situazione dietro la quale il Giudice Tutelare di Pavia aveva paventato il rischio di un colpo di mano (che poi c’è stato). In possesso del passaporto del bambino che avrebbe dovuto consegnare entro la fine di agosto, dopo essere ritornato in Israele, ritorna in Italia, cambia l’auto, così da evitare di essere controllato, e insieme al bambino rientra in Svizzera e di lì, con un aereo privato, in Israele. “La Repubblica” del 17 u.s. si chiede come “il nonno abbia potuto beffare la polizia. Il bambino non poteva espatriare per ordine del Giudice. Come ha potuto salire sull’aereo?”. In un’intervista il nonno che l’ha rapito dichiara “non mi fidavo della giustizia italiana”. Indagato per sequestro di minori, dopo quattro giorni di carcere, è stato messo agli arresti domiciliari nella sua casa di Tel Aviv. Le voci secondo cui la guerra tra le due famiglie sarebbe motivata da interessi economici, arrivano nel frattempo anche in Israele. In effetti il risarcimento della assicurazione sarà abbastanza forte: si parla di circa due milioni di euro. E’ sempre il nonno a riferire di aver chiesto di congelare i beni di Eitan fino a 18 anni ma gli avvocati della zia italiana si sono opposti. Perché, si chiede il nonno? La zia Aya teme che il bambino possa avere gravi conseguenze psicologiche ma anche l’Ambasciata Italiana in Israele, dopo una visita del Console italiano a casa del nonno, riferisce che il piccolo Eitan è apparso in buone condizioni di salute. Arrivata la zia italiana in Israele per partecipare al processo, che si aprirà il 29 settembre per decidere se Eitan deve rientrare in Italia, ha anticipato di voler chiedere la custodia del minore anche durante il processo. Una richiesta maldestra che lascia ancora una volta dubitare delle reali intenzioni della donna. Dopo il suo arrivo a Tel Aviv, il Tribunale della famiglia ha deciso di anticipare l’udienza al 23 u.s. per valutare la istanza del rientro del minore in Italia in base alla Convenzione dell’Aja presentata dai legali israeliani della famiglia Biran. Una richiesta – sotto il profilo giuridico – davvero anomala perché, se la residenza del minore è fissata in Israele, si viene a capovolgere la ratio della norma che tutela il diritto del minore di rientrare nel suo paese d’origine ed essere affidato ad un membro della sua famiglia. Non necessariamente il nonno il quale rischia solo una condanna da parte del Giudice italiano per aver violato un ordine del Giudice. A nostro modesto avviso, è del tutto inammissibile il ricorso alla Convenzione dell’Aja perché mancano i presupposti previsti dalla norma. Più ragionevole si è mostrata l’avvocato che rappresenta in Italia i nonni materni, la quale ha sollecitato un accordo tra le due parti in quanto, se il minore ritorna in Italia, si rischia una collocazione dello stesso extra-familiare presso i Servizi Sociali o affidato ad un soggetto terzo in attesa di verificare le ragioni delle parti. Ma fino ad ora, sembra che il suggerimento non sia stato accettato. E’ soprattutto lo zio del minore- marito della zia italiana – a ripetere che “la sua casa è a Pavia, è vero che ha la doppia cittadinanza ma lui è italiano, parla meglio l’italiano dell’ebraico”. Per il momento la zia paterna Aya ha presentato istanza di affidamento alla tutrice legale nel corso della prima udienza. Comunque, in attesa del processo che è stato fissato per l’8 ottobre, il Giudice israeliano ha disposto che il minore per metà del tempo starà con la famiglia dei nonni e per l’altra metà con gli zii italiani. Compromesso – spera il Giudice – che potrà reggere anche quando il procedimento entrerà nella difficile fase istruttoria. Nel frattempo, la nonna e gli zii materni hanno presentato istanza di adozione del bambino. Gli avvocati del nonno tenteranno diverse strade per sostenere che “la Convenzione dell’Aja non è pertinente al caso” facendo presente che “il rischio che il minore, ritornando in Italia, sia esposto a pericoli fisici e psichici”. Si tratta a nostro avviso, di una buona strategia processuale, ricordando che in un processo in corso in Gran Bretagna, la Corte d’Appello ha accolto il ricorso della madre di un bimbo che aveva sottratto ella stessa al padre prelevandolo dalla sua residenza abituale in Norvegia e riportandolo in Inghilterra dove lei vive. La Corte d’Appello ha accolto il ricorso ritenendo che non fossero state valutate adeguatamente le ragioni indicate dalla stessa per opporsi al ritorno del minore in Norvegia. Provvedimento pienamente legittimo ed in linea con l’interpretazione giurisprudenziale da parte di altri paesi aderenti alla Convenzione, tra i quali l’Italia, dove la Corte di Cassazione in senso analogo (Cass. Sez. I Civ. sent n. 4221 del 17.2.2021) ha ritenuto sussistente il rischio paventato ai sensi art. 13 della Convenzione dell’Aja. La nonna del minore ha lamentato che “il sistema giudiziario italiano ha ignorato la nostra esistenza” in un’intervista rilasciata al giornale La Repubblica del 22 settembre. Con la voce spezzata lamenta che “ho potuto vedere per la prima volta Eitan il 20 giugno. Le pare logico che un Tribunale stabilisca che per vedere mio nipote, che è nato a casa mia, debba avere il permesso di Aya?”. Il bambino è stato iscritto a scuola a Tel Aviv ma per ora non inizierà la prima elementare il 29 di settembre aspettando che il Tribunale decida sulla domanda di adozione presentata dai suoi zii materni sia sulla richiesta di custodia. La nostra opinione, da giuristi, è che la vicenda venga risolta facendo riferimento ad una corretta interpretazione della Convenzione dell’Aja. Il presunto “rapitore” paghi pure il suo debito con la giustizia italiana per aver violato un ordine del Giudice ma chiediamo che il Tribunale di Tel Aviv si pronunci sulla vicenda in base all’interpretazione giurisprudenziale della Convenzione dell’Aja, confermando che il minore resti in Israele dove la vicenda non occupa le prime pagine dei giornali come qui da noi anche se l’opinione generale è che il Tribunale di Tel Aviv lasci che il bambino continui a vivere in Israele. Noi speriamo che a prevalere sia soprattutto il senso di pietà per questo orfano che, come abbiamo già scritto, rientrando in Israele nella casa dove ha vissuto i suoi primi anni, si senta più protetto e possa continuare a sentire tra le pareti di quella casa la presenza dei suoi genitori, aiutandolo negli anni a venire ad attenuare l’angoscia per la perdita subita. Chi ha a cuore il futuro di questo bambino sappia accettare anche questa soluzione.