FUORI GLI STRANIERI DALLA LIBIA
Il 12 novembre u.s., si è tenuta a Parigi una conferenza internazionale promossa dalla Francia con l’obiettivo di sostenere il controverso processo elettorale che dovrebbe riportare la Libia a dotarsi di un presidente e di un nuovo Parlamento. Conferenza copresieduta anche da Germania e Libia sotto l’egida delle Nazioni Unite con la presenza di numerosi protagonisti internazionali come il presidente del Consiglio Draghi, la cancelliera tedesca Angela Merkel e la vicepresidente americana Kamala Harris. Tra gli obiettivi di Parigi c’è quello di una “maggiore stabilità” non solo della Libia, ma di tutta la regione. Più chiaramente la Francia intende rafforzare i suoi rapporti con gli ex paesi che facevano parte del suo impero coloniale, a difesa dei suoi obiettivi strategici e per garantirsi lo sfruttamento delle riserve energetiche di cui la Libia dispone. Le fa eco l’Italia che intende intrattenere buoni rapporti col nuovo governo per assicurarsi i rifornimenti di gas e petrolio e la collaborazione dell’industria estrattiva italiana con questo paese. Non manca all’appuntamento nemmeno il rappresentante USA tanto per ribadire che ogni decisione deve avere il consenso del primo protagonista della scena politica mondiale. Per la Libia erano presenti il premier in carica nel governo di Tripoli e il presidente del Consiglio presidenziale ed il presidente egiziano Al Sisi insieme al suo protetto, il maresciallo Haftar. L’Italia e la Francia, sia pure con toni diversi, hanno richiesto il ritiro di tutte le forze militari di Russia e Turchia ancora presenti in Libia. Per la Turchia Erdogan, che non era presente a causa della partecipazione a Parigi anche della Grecia, continua a sostenere che i militari inviati erano stati richiesti dal governo di Tripoli. Mancava anche il rappresentante della Algeria, in piena crisi diplomatica con la Francia. La conferenza si chiudeva con l’intesa di tenere le elezioni con un primo turno fissato per il 24 dicembre u.s.
Una ipotesi poco probabile anche a tener conto che all’appello mancavano altri protagonisti che gli organizzatori della conferenza vorrebbero tenere fuori dai giochi. Non dimentichiamo che anche le milizie delle diverse fazioni concretamente pesano sull’esito delle elezioni. Un altro elemento di instabilità, nel frattempo, si è inserito nel gioco. Tra i primi candidati alla presidenza che hanno iniziato a registrarsi, compaiono nomi destinati a creare conflitto, come quello dell’ex ministro dell’Interno di Misurata e quello (probabile) del figlio dell’ex dittatore Saif al-Islam Gheddafi e del maresciallo Haftar la cui candidatura non piace all’attuale premier del governo, tornato da poco proprio dalla Turchia.
A meno di dieci giorni per la data fissata dalle elezioni tornavano in azione le milizie dei “signori della guerra” più potenti che hanno circondato a metà dicembre gli uffici del primo ministro contestato e del presidente del Consiglio presidenziale che ha anticipato l’ipotesi di un rinvio, preoccupato perché c’è ancora molto da fare per garantire un voto regolare e soprattutto per assicurare che i risultati dello scrutinio siano poi accettati da tutti.
Qualche giorno dopo è stato il Parlamento libico ad annunciare ufficialmente che non era possibile tenere le elezioni nella data indicata e la Commissione sostenuta dalle N.U., ha proposto come prossima data il 24 gennaio di quest’anno. L’annullamento del voto era nei fatti sia perché nell’attuale situazione legislativa in Libia non è chiaro chi sia tenuto a controllare il processo elettorale (la Commissione elettorale, il Parlamento o la Corte Suprema). L’annullamento del voto ha coinciso con una nuova fase politica: a Bengasi, dopo tre giorni di negoziati segreti condotti in Egitto, si sono incontrati il maresciallo Haftar, l’ex vice presidente e l’ex ministro dell’Interno per aprire un nuovo processo politico, garantito dall’Egitto. Il patto sottinteso fra i tre ladroni è che il premier attuale vada sostituito con un altro primo ministro con l’appoggio di Haftar che riceverebbe incarichi per i suoi ministri. Un altro problema affrontato nel corso di questo incontro è stata la probabile candidatura del figlio di Gheddafi che, secondo alcuni sondaggi, potrebbe ricevere un forte sostegno in “elezioni libere” perché gli ex gheddafiani sono ancora molti in Libia ma l’ostacolo potrebbe essere superato perché l’erede di Gheddafi è sotto accusa alla Corte Penale dell’Aja ed è in una condizione incerta in Libia dove viene visto ancora come il diavolo. Dopo le mancate elezioni a commentare questa situazione è intervenuto sulle pagine de La Repubblica del 7 gennaio scorso Marco Minniti, ex ministro degli Interni, che ha ricordato che “non a caso era stata fissata la giornata del 24 dicembre per ricordarne un’altra, quella del 1951, anno dell’indipendenza ad evocare, in qualche modo, l’idea di un paese che riprendeva nelle proprie mani il suo destino liberandosi dalle tutele e delle ingerenze esterne” facendo espresso riferimento alla presenza sul terreno di Turchia e Russia “due protagonisti importanti e ingombranti che, agendo in contrasto o d’intesa con gli altri attori regionali, risultano sempre più decisivi” paventando il rischio di una rottura e la divisione della Libia in zone d’influenza, con la Tripolitania appoggiata dalla Turchia, e l’altra la Cirenaica russo-egiziana. “Sarebbe una catastrofe strategica non solo per l’Italia ma per l’Europa tutta consegnare una definitiva influenza in Libia a due potenze “orientali” che costituirebbe un imponente cambiamento dei rapporti di forza nel Mediterraneo centrale. Un’area cruciale per il governo dei flussi migratori, per la lotta contro il terrorismo, per la sicurezza sanitaria. Proprio per questo l’Europa non può più aspettare”. Questa ipotesi è abbastanza realistica ma occorre aggiungere che neppure le potenze occidentali possono continuare a ritenersi padroni esclusivi del Mediterraneo e continuare a decidere dei destini dei paesi rivieraschi, proprio a tener conto dei nuovi rapporti di forza che non possono escludere anche la partecipazione di altre potenze “cd. estranee” allo sfruttamento delle risorse energetiche di questa parte dell’Africa. O si arriva dunque ad un accordo per spartirsi il bottino o potremmo trovarci nella spiacevole situazione di dover affrontare una prospettiva di guerra tra tutti i paesi interessati al futuro dell’Africa. E’ quello che tra le righe paventa Minniti quando scrive che “ci vuole un diretto protagonismo di un grande continente che, dentro una condivisione strategica con gli Usa, si assuma la responsabilità di iniziative politico-diplomatiche tese a garantire la stabilità e la sicurezza nel Mediterraneo, dal Sahel al Corno d’Africa, dalla Libia al Libano, dalla Tunisia all’Algeria…per evitare un gigantesco effetto domino”. “L’Europa ha la sensibilità e la forza per affrontarla”, tenendo conto che l’UE sarà guidata nel prossimo semestre proprio dalla Francia “un paese insieme profondamente europeo e mediterraneo”. Forse Minniti ha dimenticato che – dietro l’angolo – si è affacciata negli ultimi decenni una grande potenza come la Cina che sta acquistando in Africa immensi spazi per assicurarsi una riserva energetica in caso di crisi, trasformando grandi spazi in zone di coltivazione della soia, sottraendoli alla coltivazione delle popolazioni autoctone. Ancora è evidente che il futuro dell’Africa non può più dipendere dalle scelte degli ex paesi coloniali e di quelli nuovi che non possono decidere del destino di questo continente anche perché ci sembra che non possano affatto ritenersi gli interessi occidentali più legittimi di quelli orientali. In nome di che cosa? Di una parvenza di “democrazia” dei paesi occidentali che raccoglie paesi ex-coloniali come la Francia, l’Italia e paesi come gli USA che non possono dirsi campioni della democrazia, dimenticando il Vietnam, l’Afghanistan e il Medio Oriente, dove gli USA si sono alleati con potenze sovraniste come la Turchia e gli Emirati Arabi. Se il nostro percorso è quello del rispetto dei diritti umani, contro ogni forma di discriminazione, se è quello della costruzione di ponti e non di frontiere, ebbene tentiamo innanzitutto di rivedere i nostri rapporti con tutto il continente africano a partire dalla pandemia che è l’occasione per mostrare ai paesi dell’altra sponda del Mediterraneo che possono contare sul nostro appoggio per la lotta contro la pandemia, contro la fame e contro il sottosviluppo. Ne abbiamo la forza e la disponibilità. Perché non tentare questa strada invece di imboccare una strada senza uscita? Per noi e per le future generazioni, facciamo sentire la nostra voce contro la guerra, contro le discriminazioni e contro lo sfruttamento di centinaia di milioni di esseri umani. Ma l’UE sembra andare nella direzione opposta, soprattutto quando ha deciso di far scadere centinaia di milioni di dosi di vaccino, invece di destinarle alle popolazioni africane che ne sono prive.
Non è certo una buona notizia che pone in discussione la possibilità dell’UE di portare soccorso alle popolazioni africane che soffrono, non tanto e non solo per la mancanza di validi supporti vaccinali, ma per la fame che ormai è un fattore endemico e per i focolai di guerra che costringono queste popolazioni a tentare di emigrare nella vicina Europa. Può sembrare paradossale ma l’aiuto concreto che potrebbe offrire l’UE farebbe bene non solo all’Africa ma alla stessa Europa, potendo costituire un freno al fenomeno migratorio.
Gennaio 2022