Fascismo e antifascismo
Nel lontano 1960, quando ero ancora un giovane studente di ginnasio, ebbi a leggere sulla rivista “Vie nuove”, pubblicata dal PCI, un articolo di Giancarlo Pajetta, all’epoca deputato al Parlamento, il quale, nel commemorare l’anniversario del 25 aprile, riferendosi alla lotta partigiana, scriveva testualmente che l’Italia aveva chiuso per sempre ogni partita con il fascismo. Quella affermazione di Giancarlo Pajetta, purtroppo, nascondeva un’amara verità.
Il conto col fascismo non era mai stato chiuso grazie anche alla “doppiezza” del “Migliore”, nome di battaglia di Togliatti segretario del PCI, che nel primo governo De Gasperi, come Ministro di Grazia e Giustizia, aveva varato il 22.6.1946 il “decreto presidenziale di amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari” avvenuti durante il periodo dell’occupazione nazi-fascista. Decreto approvato all’unanimità da tutto il governo.
L’amnistia comprendeva il condono delle pene per reati comuni e politici per condanne fino ad un massimo di cinque anni. Nelle intenzioni, dunque i reati gravi e gravissimi non erano inclusi nell’ amnistia, che, tuttavia, subirà un’estensione indiscriminata da parte dei giudici grazie anche alla mancata epurazione della magistratura fascista. Il provvedimento scatenò fin da subito malumori e tensioni, soprattutto nel Nord Italia. Le associazioni partigiane non accettarono di buon grado la scarcerazione dei loro aguzzini, mentre nel contempo restavano in carcere partigiani arrestati per azioni compiute durante l’occupazione o subito dopo la liberazione.
E così, come ebbe a scrivere Marco Franzinelli nel 2006 nel suo libro “L’amnistia Togliatti”, mentre le prigioni si aprivano per migliaia di fascisti a partire dagli alti gerarchi e per una moltitudine di funzionari di ogni ordine e grado compresi i giudici del tribunale per la difesa della razza, i militanti comunisti che si erano vendicati dei loro aguzzini e dei loro fiancheggiatori dopo la liberazione restavano in galera, avendo stabilito le Corti – formate dai giudici fascisti – che ad essi non era applicabile l’amnistia, trattandosi di delitti comuni. E così molti di essi, furono costretti a rifugiarsi all’estero nei paesi dell’Est europeo, dove hanno passato il resto della loro vita non potendo più rientrare in Italia. Sandro Pertini, disegnò sconsolato il quadro che l’amnistia lasciava dietro di sé “abbiamo visto uscire coloro che hanno incendiato i villaggi, che hanno violentato donne”, mentre fra gli azionisti (membri del partito d’azione) Calamandrei definiva il decreto togliattiano “il più insigne monumento all’insipienza legislativa” e Ernesto Rossi, anche lui perseguitato politico, vi scorgerà “una dimostrazione di imbecillità e di incoscienza”. Ed è vero, come rilevava Piero Calamandrei, che il provvedimento di amnistia aveva una natura delegittimante nei confronti della Resistenza, in quanto le azioni commesse durante la lotta antifascista vennero considerate alla stregua di reati comuni, anche se motivate da eccezionali contingenze.
Sta di fatto che grazie ad una interpretazione distorta del testo del decreto, tra i 7.071 amnistiati, solo 153 erano partigiani, e 6.908 i fascisti.
Molti dei fascisti riabilitati – a partire dagli alti burocrati – ritorneranno a fare politica nelle file dell’MSI: si calcola che negli anni seguenti che la base parlamentare dell’MSI per i 2/3 era costituita da parlamentari che avevano goduto dell’amnistia. Questo perché, a differenza di altri paesi, l’amnistia non prevedeva l’esclusione dalle cariche pubbliche per i collaborazionisti, com’erano di fatto i gerarchi della RSI. Si calcola che, tra l’amnistia e il condono, verranno liberati o avranno la pena ridotta più di trentamila persone.
Se dunque il conto non è stato mai chiuso con il fascismo è anche perché, grazie a questa legge, mentre altri paesi europei, Germania in testa, scelsero di fare i conti con la propria storia, l’Italia decideva di nascondere la polvere sotto il tappeto.
Le conseguenze di quella scelta scellerata le paghiamo ancora oggi, quando Mussolini viene definito “grande statista” o si dice che il fascismo “mandava la gente in vacanza nelle isole”, come si è espresso anni fa un noto imprenditore, approdato alla guida del governo italiano.
Come hanno scritto in anni recenti storici come Franzinelli e Sergio Luzzatto, l’amnistia faceva parte di una precisa strategia di Togliatti e di una parte della leadership comunista: il partito voleva accreditarsi come una forza popolare, inserita nell’arco costituzionale e moderato, desiderosa di mettersi alle spalle gli anni di guerra e iniziare un percorso di riconciliazione nazionale.
Anche perché, a seguito degli accordi di Yalta, l’Europa del dopoguerra restò divisa in due blocchi: il primo sotto l’ombrello degli USA e il secondo sotto il controllo dell’Unione Sovietica.
Tutto ciò ha impedito di fare i conti con la storia fino in fondo. Togliatti, sbarcato in segreto in Italia nel 1944, fu inviato da Stalin per frenare le velleità di una parte dei partigiani che avrebbero voluto trasformare la guerra di liberazione dal nazifascismo in una vera e propria guerra “rivoluzionaria” ma non era più questa la prospettiva di Mosca che mirava a conservare il suo controllo sui paesi dell’Est e dare vita ad un nuovo corso del capitalismo di Stato.
Insomma si può dire che, senza aver fatto chiarezza nella storia recente del nostro paese, il fascismo paradossalmente trova la sua legittimità nel suo antagonista storico, l’antifascismo, che lo ha traghettato nelle file della democrazia parlamentare.
Una democrazia malata che, soprattutto in periodo di crisi, solleva il sepolcro dando vita ai fantasmi del passato che si credevano ormai sepolti. Pur osteggiata da un ampio schieramento politico, oggi il fascismo, sia pure in versione moderna, si prende la rivincita nei confronti dei suoi detrattori, scodellando politiche economiche e culturali che si rifanno alla vecchia ma pur tenace ideologia nazional-popolare.
Chi sono questi signori che oggi si azzannano per strappare il boccone più ghiotto se non i tardi epigoni di una cultura politica autenticamente sciovinista e razzista?
Se nella vita politica della prima Repubblica era stato facile tenere ai margini una destra che si richiamava all’esperienza del fascismo, ebbene oggi, grazie anche alla debolezza del nostro tessuto democratico, la destra non ha più paura di riproporre le sue ricette di stampo autoritario e razzista. Insomma, stiamo assistendo alla trasformazione in senso autoritario del nostro sistema sociale, senza che si abbia la forza di fermare questa deriva. Quella che oggi è la politica di emarginazione nei confronti delle minoranze sociali e contro i migranti è solo l’anticipazione del rafforzamento del potere nei confronti della società. Le recenti riforme in materia di sicurezza – tra le quali va ricordato il decreto Salvini e la legge sulla legittima difesa – dovrebbero ormai sollevare più di una preoccupazione sulla tenuta della democrazia di questa Repubblica. Mentre le nostre carceri scoppiano per l’aumento dei detenuti e aumenta la violenza nei confronti delle donne e la corruzione alimenta un canale parallelo all’economia legale, se non vogliamo ritrovarci di qui a qualche anno a rimetterci la maglia nera o quella che ci farà indossare Salvini o chi per lui, dobbiamo reagire a questa omologazione di massa, rivendicando il rispetto dei diritti conquistati con le battaglie sociali nel corso degli anni passati.
Diversamente, con Salvini o senza, il paese è condannato ad un lento ma costante declino democratico. Non a caso, è stato coniato dagli studiosi delle dottrine politiche la definizione di “democrazia autoritaria”. In epoca recente, parliamo della seconda metà del secolo scorso, in una fase economica decisamente favorevole, sul piano politico si è tentato di creare un potere basato sul consociativismo – pensiamo all’ ipotesi del compromesso storico – che non era altro che la ripresa della collaborazione tra tutte le classi sociali che era servita a Togliatti e soci per iscriversi nell’albo dei patrioti. Oggi il percorso va invertito: gli interessi dell’imprenditoria, dei detentori del potere economico non si identificano più con quelli della maggioranza della popolazione.
Non dimentichiamo che anche nel corso di questa ultima crisi economica, mentre è peggiorato il tenore di vita delle classi lavoratrici, è aumentato in Italia il numero dei milionari.
Se vogliamo effettivamente avere una piena democrazia, ebbene, chi si richiama ai valori della solidarietà e dell’accoglienza, chi lotta contro le discriminazioni sociali, chi lotta per la difesa del pianeta contro la massiccia speculazione degli Stati e della classe capitalista, bisogna imboccare la strada dell’antagonismo sociale se si vuole effettivamente estirpare il fascismo una volta e per sempre. Ma per affrontare questa prospettiva dovranno cambiare i protagonisti della politica ed è questo l’ostacolo più forte in quanto in questi ultimi anni è fallito ogni tentativo di rinnovamento sia da parte degli schieramenti oggi al governo sia da parte della sinistra che ha rovinosamente rinunziato ad una politica di difesa della classe lavoratrice che, ancora una volta, sta pagando il prezzo più alto per la crisi economica che ha determinato un peggioramento sia dei salari che delle condizioni di vita all’interno e fuori dalla fabbrica.
L’obiettivo dunque è quello di costruire un nuovo soggetto politico che sappia gestire il cambiamento per una società più giusta, rispettosa dei diritti umani, multiculturale e multietnica e che sappia combattere ogni forma di discriminazione sociale.
Un progetto senz’altro arduo ma non irrealizzabile se si saprà incanalare la protesta sociale e lo scontento di milioni di individui nella giusta direzione. Già l’esito delle elezioni europee, se si verificasse una sconfitta dei paesi cd. sovranisti, potrebbe segnare l’inizio di un nuovo corso politico sia per l’Europa ma anche per il nostro paese.
(Avv. E. Oropallo)