ERGASTOLO OSTATIVO INCOSTITUZIONALE
Il 24 Marzo u.s. la Corte Costituzionale si è pronunciata per l’illegittimità costituzionale delle disposizioni di cui agli artt. 4-bis e 58-ter dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni ivi previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla libertà condizionale.
L’ergastolo ostativo è incostituzionale perché in contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione e con l’art. 3 della CEDU. Tuttavia, ci dovrà pensare il Parlamento a varare una legge specifica. A differenza della sentenza del 2019 che ha dichiarato incostituzionale la preclusione assoluta del permesso premio a chi non collabora, questa volta i giudici delle leggi hanno preferito attendere un intervento legislativo nel merito. Per comprendere fino in fondo la portata di questa sentenza, in attesa di conoscerne le motivazioni, passiamo la parola alla rivista “Questione giustizia” che, in attesa della decisione della Consulta, ha pubblicato un lungo articolo, a firma di Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale all’Università di Palermo, dedicato a questo argomento. Articolo che qui riprendiamo in larga parte per comprendere meglio quale è la posta in gioco. In questo articolo l’autore, facendo la recensione di un volume “Il diritto alla speranza davanti alle Corti. Ergastolo ostativo e art. 41-bis”, coglie l’occasione per una meditazione sulla pena perpetua e sul regime differenziato del 41-bis. Scrive l’autore “Nel libro-inchiesta sulla colonia penale di Sachalin, che Anton Cechov scrisse dopo aver compiuto un apposito viaggio conoscitivo dall’aprile a maggio 1890, leggiamo “l’assenza di termine della condanna e la consapevolezza che ogni speranza in un futuro migliore è vana, che nel condannato il cittadino è morto per sempre e che non esiste sforzo che possa riportarlo in vita, inducono a concludere che la pena capitale, sia in Europa che da noi, non è stata abolita bensì camuffata sotto altre vesti meno scandalose per la sensibilità umana”; “sono profondamente convinto che tra cinquanta o cent’anni si guarderà al carattere perpetuo delle nostre pene con la stessa perplessità e lo stesso imbarazzo che oggi destano in noi lo strappare le narici o tagliare un dito della mano sinistra. Ma sono altrettanto convinto che, per quanto consapevoli del fatto che l’ergastolo sia un provvedimento retrogrado e insensato, non disponiamo ancora delle forze necessarie per porre rimedio a una simile disgrazia. “Ritengo- continua l’autore – che sarebbe difficile rinvenire parole più adeguate di queste di Cechov sopra riportate per sintetizzare, con altrettanta efficacia, buona parte delle ragioni di fondo che – non certo, appunto, da ora – pongono in dubbio la legittimità dell’ergastolo (in sé, prima ancora dell’ergastolo cosiddetto ostativo) e, più in generale, della detenzione di lunghissima durata specie se inasprita da regimi penitenziari di accentuato rigore. A ben vedere, il grande scrittore russo anticipava in nuce punti nevralgici destinati a condizionare la successiva evoluzione dello stesso approccio costituzionale… Mi riferisco, com’è intuibile, al possibile contrasto delle pene detentive perpetue col senso di umanità e alla contraddizione comunque esistente tra la carcerazione molto protratta nel tempo e l’esigenza avvertita da ogni essere umano di poter vivere un futuro migliore (esigenza che sarebbe poi sfociata, ad opera delle Corti, nella elaborazione di un “diritto alla speranza” quale diritto irrimediabilmente violato da una reclusione indefinita).
Non è certo un caso che temi come l’ergastolo ostativo o il regime del 41-bis continuino a risultare da noi divisivi, come è comprovato dalle nette contrapposizioni e dalle vivaci polemiche che sono solite esplodere anche in occasione di pronunce della Corte Edu e/o della nostra Corte Costituzionale che hanno come effetto di ridurre progressivamente gli spazi di legittimità delle più rigorose discipline detentive riservate ai soggetti appartenenti alla criminalità organizzata. Dal canto suo, Dolcini (ndr. è uno degli autore del libro recensito dal prof. Fiandaca) non omette di ribadire la tesi – da lui più volte sostenuta – di un insanabile contrasto tra il carattere perpetuo dell’ergastolo (pur attenuato per effetto dei temperamenti via via apportati con i diversi interventi legislativi in materia) e il principio di rieducazione, se per rieducazione deve intendersi – in conformità all’orientamento dominante – una offerta di aiuto al condannato che punta all’obiettivo di fargli acquisire la capacità di tornare a vivere nella società rispettandone le regole legali: infatti, l’ergastolo tende non a reinserire il condannato nella società, bensì ad escluderlo per sempre; tende a produrre la morte civile del condannato.
Più problematico è valutare la compatibilità tra la pena perpetua tout court e il principio di umanità. Non si può allora trascurare il fatto che sondaggi effettuati ancora di recente confermano che la stragrande maggioranza della popolazione italiana (circa l’80 % degli intervistati) è a favore del mantenimento della reclusione a vita.
Nel tempo presente la giurisprudenza sia europea che nazionale è meritoriamente giunta a elevare a oggetto di un diritto, appunto il diritto alla speranza. Ed è di notevole rilievo, culturale e simbolico, che questa prospettiva di apertura verso praticabili possibilità di ritorno ad una vita futura in libertà abbia persino trovato ingresso nell’orizzonte mentale e nel vocabolario della stessa Corte di Cassazione, come emerge dalla ormai nota ordinanza del 3 giugno 2020 con la quale la prima sezione ha sollevato l’eccezione di costituzionalità contro la preclusione legislativa dell’accesso alla liberazione condizionale da parte dei mafiosi condannati all’ergastolo non collaboranti con la giustizia. Nella motivazione di tale ordinanza, leggiamo che: «L’esistenza di preclusioni assolute all’accesso alla liberazione condizionale si risolve in un trattamento inumano e degradante, soprattutto ove si evidenzino progressi del condannato verso la rieducazione; e ciò perché, in tal modo, il detenuto viene privato del diritto alla speranza».
Tuttavia, sottolinea la Consulta “l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata” rinviando ogni decisione a maggio del 2022 per consentire al legislatore “gli interventi che tengano conto della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia facendo prevalere, a differenza della decisione di un anno e mezzo fa, la ragione politica sulla ragione giuridica”. Così scrive il giornale “Il Dubbio” del 15 u.s.. Eppure c’è già stata una chiara condanna da parte della CEDU circa due anni fa sulla preclusione assoluta della libertà condizionale per chi non collabora con la giustizia e il Parlamento in questi anni ha preferito non assumersi la responsabilità per adeguare la legge secondo le indicazioni che ne aveva dato la Corte europea. Ancora una volta le ragioni della politica bloccano ogni riforma giudiziaria soprattutto vanificando il lavoro della giurisprudenza nazionale ed europea. La CEDU si era occupata di pronunciarsi sull’ergastolo ostativo nel ricorso sollevato da un ergastolano con grossi precedenti penali che aveva presentato al Tribunale di Sorveglianza almeno in due occasioni la concessione di permessi premio, entrambi rigettati per la mancanza del requisito della collaborazione.
Sulla vicenda si è pronunciato già il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick che in un’intervista rilasciata sempre al giornale “Il Dubbio” del 16 u.s. non nasconde le proprie perplessità sulla decisione assunta dalla Corte. “Da una parte – rileva – dichiara l’incostituzionalità della norma che consente, per gli ergastolani ostativi, la liberazione condizionale solo se collaborano, senza però perfezionare la decisione ritenendo che sia il Parlamento a dover predisporre una legge ordinaria in modo da non compromettere il contrasto alla mafia e premialità per chi si pente. Si tratta di una pronunzia senza precedenti, in parte assimilabile alla decisione che si ebbe sul fine vita. Ma la decisione oggi della Consulta – continua il prof. Flick – è solo in parte assimilabile alla scelta con cui nell’ottobre 2018 la Corte concesse un anno di tempo al Parlamento per disciplinare il fine vita. Scelta che, vista l’inerzia legislativa, fu seguita dalla declaratoria di parziale illegittimità arrivata esattamente un anno dopo in quanto – aggiunge l’intervistato – si va ancora più oltre perché viene indicato un necessario intervento per legge ordinaria, un precauzionale argine normativo da possibili ricadute sulla lotta alla mafia e sulla collaborazione. Dato che la Corte ritiene necessaria preservare qualsiasi forma di contrasto della criminalità sia l’efficacia dei meccanismi premiali per chi collabora, quale sarà la strada percorribile se il Parlamento resta inerte ancora una volta? Ma c’è un altro aspetto che denunzia la limitatezza di un provvedimento che non ha saputo coraggiosamente trarre le dovute conseguenze dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma di legge, lasciando sospeso ancora per un altro anno almeno il diritto di chi non può utilizzare la norma a suo favore. Una norma o è incostituzionale o non lo è: dal comunicato emesso, la Corte sembra non avere dubbi quali siano i principi violati; l’art. 3 della Costituzione, l’uguaglianza e la ragionevolezza e l’art. 27 secondo cui il fine della pena dev’essere rieducativo ed esiste perciò “un diritto alla speranza” per qualsiasi condannato. Inoltre, sempre secondo la Corte la norma è in contrasto con l’art. 3 della Convenzione europea. La sospensione è tanto più problematica se si pensa alla rilevanza del pregiudizio di cui si discute. L’ergastolo, come è stato più volte detto in passato, è da considerarsi “una pena di morte” civile e in quanto tale è una pena in contrasto con la Carta.
La liberazione condizionale fa in modo che quella morte civile, a determinate condizioni, possa essere scongiurata e l’ostatività è un eccezione evidentemente non più sopportabile. La Corte lo dice con estrema chiarezza ma la decisione che prende per il momento è davvero contraddittoria e, in un certo senso, scavalca i suoi poteri costituzionali perché la Corte è chiamata a giudicare sulla legittimità costituzionale delle leggi non sul loro inserimento in modo adeguato nel sistema di contrasto alla criminalità ma c’è un ulteriore piccolo passo oltre i confini della Consulta quando si parla di compatibilità con il quadro delle leggi ordinarie in materia. La Corte in effetti non può entrare nel campo di azione del legislatore.”
E’ evidente che i Giudici della Consulta hanno inteso evitare per ora gli effetti devastanti che una sentenza di incostituzionalità potrebbe arrecare all’impianto normativo legato alla lotta delle mafie. Ma l’avviso è forte e chiaro: se per maggio del 2022 il Parlamento non avrà messo mano ad una norma specifica, la Consulta procederà con la cancellazione della pena. Un verdetto dunque che riaccende la polemica politica ma se le associazioni “Antigone” e “Nessuno tocchi Caino” parlano di un passo avanti sul cammino della speranza, il M5S e FdI prendono immediatamente distanza dal provvedimento dichiarando che lavoreranno fin da subito in Parlamento per scongiurare che questa norma sia dichiarata incompatibile con il nostro ordinamento. Al di là delle contrapposizioni scontate tra gli schieramenti politici, c’è già qualcuno come la sorella del giudice Falcone, che interviene augurandosi che il legislatore “non venga a pregiudicare l’efficacia di una normativa antimafia costata la vita a tanti uomini delle istituzioni” mentre Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ricorda che “la nostra legislazione anti-mafia è la migliore d’Europa e l’Europa avrebbe solo da imparare”. E lo scrittore Elvio Fassone, ex magistrato e senatore rileva che “non si può presumere che la collaborazione con la giustizia costituisca l’unico metro sul quale rivalutare la rieducazione del detenuto”. “Certo il mafioso non è un associato come gli altri ma nulla nell’uomo è immutabile mentre Salvini già dice “l’ergastolo non si tocca: non viene e non verrà eliminato. Non si spalancheranno i cancelli di nessun carcere. Non ci saranno i cortei di ergastolani trionfanti nelle strade”. “Dal canto opposto, è sempre Elvio Fassone a parlare, una legislazione può dirsi di emergenza quando “emerge” per poi scomparire. La legge che ha introdotto l’ostatività dell’ergastolo risale al 1992, cioè a quasi trent’anni fa”. A tenerla ancora in vita, a nostro modesto avviso, significa solo che quel periodo emergenziale esiste ancora o, per meglio dire, che siamo sempre in emergenza. Neppure ai tempi della lotta contro il terrorismo, una volta passata quella ondata di violenza, sono state tenute in vita molte delle norme che allora venivano giustificate perché il fine giustifica i mezzi, anche quando i mezzi utilizzati, siano contrari ai principi basilari del diritto. E oggi siamo in un caso analogo, anzi peggio, perché è la più alta Magistratura del paese a riconoscere l’illegittimità di una norma e quindi la sospensione dell’applicazione della stessa finisce per essere del tutto illegittima. Vi sono dei diritti civili che non possono essere mortificati neanche nei periodi più bui della nostra vita associata come ad esempio il diritto alla vita o quello di avere un giusto processo.
Per finire l’ex Magistrato riconosce che “il carcere è sofferenza, sempre. L’ergastolo ostativo non è solo una pena più lunga delle altre. E’ la morte della speranza. Questo è ciò che la Corte di Strasburgo ha dichiarato contrario al senso di umanità e la Consulta cammina su questa via” (La Repubblica del 16.4.2021).
E’ sempre “Il Dubbio” a ricordarlo nell’edizione del 16 u.s., che “la preclusione assoluta è illegittima ma attualmente, per chi è in ergastolo ostativo, il Magistrato di sorveglianza non può valutare se il detenuto abbia o meno i requisiti per ottenere questo beneficio penitenziario”. Ma vi è molta disinformazione sul punto perché si è voluto dare la percezione che si trattasse di un indebolimento della lotta alla mafia. Ancora peggio, all’indomani della decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sul caso Viola c/ l’Italia, è passata la falsa notizia che si fosse trattato di liberare tutti. Niente di più falso perché a distanza di due anni dalla sentenza europea, Marcello Viola è ancora in carcere e non è riuscito ad ottenere alcun beneficio. In un anno e mezzo solo cinque detenuti ostativi hanno ottenuto il permesso premio su 1.271 ergastolani. Come mai si chiede il giornale “Il Dubbio” questa difficoltà nell’ottenere tale beneficio? Da una parte c’è un’apertura perché si dà al Giudice di Sorveglianza un margine di valutazione che fin qui non aveva; dall’altra però ci sono dei paletti perché va provata innanzitutto la “non attualità della partecipazione all’associazione criminale” e “va escluso il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”. E’ la stessa Consulta a precisare che la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, sia superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo ma soprattutto in forze dell’acquisizione di altri e congrui specifici argomenti. E che non vale nulla la sola dissociazione annunciata dai presunti ex boss della mafia. Sintomatica è questa affermazione, sempre della Consulta, “la collaborazione con la giustizia, non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario (la mancata collaborazione) non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento… la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette e non anche segno di effettiva risocializzazione”. “Quindi la sentenza del 2019 è stata sicuramente coraggiosa ma piena di cautela. Tutto il resto è propaganda”. Così chiude il giornale ma ci sembra ancora poco perché alla luce della interpretazione della norma fino ad oggi data, ci sembra di trovarci difronte al “giudizio di Dio” di cui si serviva la Santa Inquisizione nei processi di stregoneria e di eresia che si concludevano sistematicamente con la condanna a morte dell’inquisito.
Aprile 2021