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CRONACA DI UN MASSACRO

Un’orribile mattanza”. Questa è l’espressione usata dal GIP del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che, su richiesta della Procura, ha emesso ben 52 misure cautelari per i gravi fatti avvenuti all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020. Le indagini, ancora aperte, sono originate dagli eventi successivi alle manifestazioni di protesta di alcuni detenuti ristretti nel carcere. In particolare il 9 marzo del 2020 un gruppo di 160 detenuti del reparto “Tevere” (diverso da quello dove poi si consumeranno le violenze), dopo aver fruito dell’orario di passeggio, rifiutava di rientrare in reparto per protestare contro le restrizioni dei colloqui personali imposta dalle misure di contenimento del contagio da Covid. Il 5 aprile successivo, scoppiava una ulteriore protesta promossa da un gruppo di detenuti del reparto “Nilo” e motivata dalle preoccupazioni insorte dal pericolo di contagio conseguente alla positività di un detenuto al Covid. La protesta rientrava nella tarda serata anche grazie all’opera di mediazione e persuasione attuata dal personale di polizia penitenziaria del carcere e del Magistrato di Sorveglianza. Il giorno successivo veniva organizzata una perquisizione straordinaria nei confronti della quasi totalità dei detenuti ristretti nel reparto Nilo ed è proprio nel corso di questa perquisizione che si sarebbe verificata una vera e propria macelleria messicana. “L’estrema brutalità delle aggressioni subite, il tipo di umiliazioni loro imposte dagli agenti di polizia penitenziaria, le reazioni emotive manifestatesi nel corso della manifestazione stessa (molti detenuti, a seguito delle percosse hanno cominciato a piangere ed uno di essi è addirittura svenuto) erano peraltro tutti elementi che rendevano chiara la sussistenza di un misurabile trauma psichico delle vittime”. Questa la descrizione fatta dalla Procura. Una brutalità avvenuta in maniera pianificata ed accurata tanto da impedire alle vittime di riconoscere i propri aggressori. All’indomani di questi episodi più di una segnalazione è pervenuta dai familiari dei detenuti che hanno subito l’irruzione. Il garante regionale della Campania Samuele Ciambriello – grazie alle testimonianze raccolte dall’Associazione Antigone e acquisita la lista dei nominativi dei detenuti pronti a testimoniare – aveva inviato una richiesta alla Procura della Repubblica di S. Maria C.V..

Il quotidiano “Il Dubbio” pubblicava nel frattempo la testimonianza e le foto delle ferite di un detenuto picchiato: nel frattempo anche Pietro Ioia, garante dei detenuti del Comune di Napoli, rendeva pubbliche le foto dei detenuti picchiati che erano uscite dal carcere. Al carcere di S. Maria C.V., gli agenti penitenziari avevano formato un “corridoio umano” al cui interno erano costretti a transitare i detenuti ai quali venivano riservati un numero impressionante di calci, pugni, schiaffoni e violenti colpi di manganello. In alcuni casi, le percosse inflitte ai detenuti si sono trasformate in prolungati pestaggi. Per il GIP si è trattata di un’orribile mattanza: non solo i video ma anche le chat comproverebbero l’avvenuto pestaggio. Mentre partiva l’indagine, alcuni degli agenti penitenziari raggiunti da una custodia cautelare in carcere, avevano provato a depistare le indagini sui presunti pestaggi. I reati contestati vanno dal delitto di concorso in torture aggravate ai danni di numerosi detenuti nel carcere, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio. Insomma, una carneficina preordinata, organizzata in tutti i suoi particolari che non trova alcuna giustificazione, se pure ci fosse, che si possa tollerare questi autentici episodi di violenza. Insomma, le carceri italiane non hanno niente da invidiare né alle galere turche, né ai campi di concentramento libici, dove migliaia di migranti sono alla mercé dei loro carcerieri. Uno dei detenuti picchiati in carcere, Salvatore Q. detto Sasà di 45 anni, è uno di quei detenuti pestati al reparto Nilo in quelle ore di inferno il 6 aprile 2020. Accetta di parlare con “La Repubblica” del 1° u.s., perché dice: “per fortuna sono uscito da lì, ora sono agli arresti domiciliari ma gli abusi devono finire, tutto quello che è successo è stato uno schifo”.  Il suo racconto agli atti è un piccolo rivolo nella maxi-indagine che conta 27 faldoni. Dice Salvatore che entrarono in carcere urlando come ossessi: “Vi uccidiamo” e continua “arrivarono nel nostro reparto con i caschi per non farsi riconoscere. Mi colpirono in testa e sulla schiena. Anche quando sono andato fuori dal carcere non ho più dormito per settimane. So di aver visto in quelle ore in carcere molti che tremavano vicino a me e forse tremavo pure io e non lo sapevo. Adesso – aggiunge – voglio raccontare. Io i miei conti con la giustizia li pago, di errori ne ho fatti, ma non voglio essere un sacco di patate su cui si devono sfogare gli altri. La mia dignità deve restare a me”.

 “Davanti a quelle immagini, un nodo alla gola e il pensiero della Costituzione calpestata. A ogni immagine è aumentato il mio scoramento ed anche il mio sconcerto”. E’ la prima dichiarazione della Guardiasigilli Marta Cartabia che guarda per la prima volta il video dei pestaggi di S. Maria C.V. aggiungendo “nessuna violenza può mai trovare giustificazione né tolleranza, ogni violenza dovrà essere condannata, fermata e punita ma soprattutto prevenuta”. Questo è il primo commento a freddo di un rappresentante del Governo ma diversa è la reazione dei partiti politici. Una linea dell’intransigenza diffusa nel centro sinistra, anche a contrastare la lettera giustificazionista di Salvini che, in un’intervista aveva provato a sminuire l’inchiesta del “Domani”: “chi sbaglia paga, specie se indossa una divisa ma non si possono coinvolgere tutti i 40mila donne e uomini di polizia penitenziaria e sbatterli in prima pagina con nome e cognomi. Serve rispetto: conosco quei padri di famiglia sotto accusa e che non avrebbero fatto niente di male”. Bisogna riconoscere la coerenza di questo rappresentante della destra, sempre pronto a giustificare la violenza del sistema, anche in casi come questi che possono considerarsi una costante ormai del sistema penitenziario italiano. E poi, sui giornali è stato riportato solo il nome di chi, infrangendo il giuramento di fedeltà alla Costituzione, ha collaborato ad una vera e propria mattanza nei confronti di soggetti che erano sotto la custodia di un organizzazione statuale. Risponde Enrico Letta “Solidarizzare politicamente con chi ha commesso quelle violenze o, minimizzarle, vuol dire mettere in discussione lo stato di diritto ed anche screditare il lavoro e i sacrifici di tanti servitori dello Stato”. La dichiarazione di Salvini basterebbe a mettere in discussione la alleanza di governo che vede frammenti di una sinistra storica ormai in crisi al fianco di rappresentanti della destra estrema. “I manganelli utilizzati a S. Maria C.V. non sono stati i soli in quei due giorni e mezzo: anzi, in quei due giorni e mezzo, ventuno carceri si ribellarono e negli scontri tra detenuti e forze dell’ordine, morivano tredici detenuti” scrive La Repubblica. “Sono passati quindici mesi e non una sola responsabilità è stata accertata. Sullo sfondo dell’impunità, soltanto i nomi di persone morte mentre erano sotto la custodia dello Stato. Il racconto che si è voluto fino ad oggi accreditare è quello di detenuti che, dopo aver messo a ferro e fuoco istituti di pena, hanno assaltato le farmacie facendo razzia di metadone ed antidepressivi. Deceduti, tutti per overdose ma nessuno però ha ancora spiegato quel che risulta dalle autopsie: denti rotti, ferite alla testa, ecchimosi e nessuno ha voluto dar seguito a dettagliate lettere di denuncia dei loro compagni di cella”. A Modena è stata aperta una inchiesta per l’omicidio colposo di Salvatore Sasà Piscitelli, 40 anni, che sarebbe morto “per intossicazione di metadone”. Dopo il via libera dell’Autorità giudiziaria è arrivata anche la richiesta d’ispezione nel carcere di S. Maria C.V. che partirà nei prossimi giorni. Nel frattempo emergono nuovi particolari raccapriccianti sui pestaggi dei detenuti: “dobbiamo ancora temporeggiare qualche giorno così non avranno più segni” è una delle frasi estrapolata da una chat tra agenti, riportata nell’ordinanza del GIP nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte violenze.

Ai detenuti inoltre, in quei giorni, fu negata la possibilità di usufruire di visite e cure mediche: “si volevano far refertare ma è ovvio che non dovevano farsi refertare” sono alcune delle dichiarazioni che gli inquirenti avrebbero estrapolato tra le chat intercorse tra gli indagati.

C’è da aggiungere che Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato – scrive La Repubblica del 2 u.s. – pestaggi sono stati denunciati da centinaia di detenuti in tutta Italia ma raramente si arriva ad accertare fatti e responsabilità”.  “C’è troppa omertà, indagini archiviate frettolosamente”. “L’orribile mattanza di Santa Maria Capua Vetere non è la follia di una giornata storta ma appare essere più un metodo replicato e replicabile, spesso tollerato dalle gerarchie – aggiungendo che – le 16 inchieste aperte negli ultimi due, tre anni, testimoniano la difficoltà dei Magistrati a ricostruire i fatti quando essi avvengono all’interno delle mura e si fanno scudo dell’omertà di tanti”. Un caso analogo è stato denunciato dall’Associazione Antigone alla Procura di Potenza dove il GIP ha richiesto la archiviazione “perché le vittime non sono state in grado di riconoscere gli autori”. All’archiviazione, si è opposto l’avvocato dell’associazione argomentando che “quando agli atti finiscono anche i video delle telecamere di sorveglianza, le inchieste devono proseguire”. Altri procedimenti sono in corso un po’ in tutta Italia a partire da Palermo e fin su al penitenziario di Opera e a Pavia. All’epoca, anche il Ministro della Giustizia Bonafede, ignorò le violenze sui detenuti parlando di “legalità ripristinata”. Ma come è possibile che Bonafede e il suo Ministero abbiano difeso quelle violenze? In realtà sembra che nulla sapessero anche se al Senato in un’interrogazione del PD si chiedeva al governo di sapere come mai quel 6 Aprile 2020 gli agenti che parteciparono alla perquisizione e alle violenze siano rimasti a prestare servizio nello stesso istituto.

Nella mattanza di Santa Maria Capua Vetere è coinvolta l’intera catena di comando nell’amministrazione penitenziaria della Campania e l’ex capo del Dap Basentini, in una intercettazione telefonica, informato dell’operazione, dice al provveditore “Hai fatto benissimo” definendo la stessa “il segnale forte di cui il personale aveva bisogno”, confermando che si trattava di una vera e propria rappresaglia. Quella perquisizione,diventa lo strumento mediante il quale si è dato sfogoargomenta il Magistrato inquirenteai più beceri istinti criminali degli agenti a cui è stato consentito di operare ogni sorta di violenza ai danni dei detenuti”. Anzi, sempre nel corso delle indagini, si è scoperto che si è fatto di tutto per bloccare l’acquisizione del video per fermare l’inchiesta in corso. “Nonostante questo tentativo, il filmato va in onda in forma completa” per cui, i provvedimenti del Giudice, riguardano tutti i responsabili che hanno taciuto o peggio collaborato a questa violenza, oltre agli esecutori materiali delle stesse. “Ma lo Stato dov’era? – si chiede Ezio Mauro in un articolo comparso sul quotidiano La Repubblica – Mancava del tutto nel carcere di Santa Maria, mancava la fedeltà alla Costituzione, che prescrive il senso di umanità nei confronti dei detenuti. Ma c’è di peggio: una forza di polizia, nata per tutelare l’ordinamento democratico, si trasforma in un corpo separato di picchiatori che si scatena a colpire, torturare, manganellare e umiliare i detenuti”.

“In piena Europa – scrive ancora il giornalista – nel cuore della civiltà occidentale, l’Italia del 2021 espone le immagini di uomini terrorizzati alla mercé dei loro aguzzini“. “Nessuno degli agenti sembra abbia avuto un moto di repulsione, un soprassalto di consapevolezza: evidentemente la sopraffazione è stata possibile perché una mentalità comune la incoraggia e la autorizza in una sorta di controcultura antidemocratica” aggiungendo “Tutto questo avviene dopo il caso Cucchi, risolto con una giustizia tardiva, solo grazie alla ostinazione della sorella”. “Chi è al governo deve sentire la gravità di quanto accaduto, senza derubricarlo ad incidente: a Santa Maria sono stati smarriti sia il senso dello Stato che la coscienza della responsabilità generale di ognuno nei confronti della legge”.

LA COSTITUZIONE IN SOFFITTA

Quello che è accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere non è il frutto di poche mele marce: è il sistema carcerario che non funziona” – dichiara in un’intervista a La Repubblica Gennarino De Fazio, Ispettore Capo della polizia penitenziaria, sindacalista e segretario generale della UIL.

Ammette il sindacalista che “quanto accaduto può apparire sconcertante ma le prigioni sono considerate luoghi in cui il diritto è sospeso, un luogo dove tutto può succedere, lo Stato in carcere non fa che calpestare norme, ecco perché poi il sistema impazzisce”.

Purtroppo dalla nascita della Repubblica e fino ad oggi episodi del genere hanno sempre segnato la vita all’interno dei penitenziari, così come dimostrano le ricorrenti rivolte in carcere contro il clima persecutorio instaurato all’interno del carcere, in spregio ad ogni principio di umanità e di rispetto dei diritti umani. Insomma se il carcere crea mostri all’interno delle prigioni, non è il carceriere che va educato ma è il sistema penitenziario che va cambiato perché è quello che genera violenza dietro le sbarre, qualche volta anche nei confronti dei carcerieri. Negli anni successivi, anche per fronteggiare il terrorismo, furono costruiti “carceri speciali” e “di massima sicurezza” all’interno dei quali la situazione è peggiorata con ulteriori limitazioni dell’esercizio di diritti umani non coercibili neppure in stato di segregazione. Certo è che l’eccessiva lentezza dei processi resta il problema più grave della macchina giudiziaria italiana. Per superare questo scoglio, non si possono comprimere ancora di più le garanzie per la difesa, sancite nella Costituzione e sacrosante ma i rimedi vanno cercati altrove. Sviluppare innanzitutto al massimo la magistratura ordinaria, depenalizzare coraggiosamente i reati minori e diminuire la popolazione carceraria che è una delle ragioni del sovraffollamento carcerario. Alla fine degli anni ’80, grazie anche ad un allentamento del fenomeno terrorista, il Parlamento italiano riuscì ad emanare un nuovo regolamento penitenziario che riconosceva i diritti dei reclusi e l’uso straordinario della reclusione, laddove fosse effettivamente necessario.

Questa nuova prospettiva, purtroppo, si è infranta difronte ad una difesa ad oltranza del ricorso alla pena carceraria, vista come “naturale” provvedimento per salvare i reclusi della società civile e per dare sicurezza all’opinione pubblica.

Oggi si può andare oltre questi limiti, sociali e politici, ponendosi una domanda: ma è proprio necessario tenere in piedi una struttura come quella carceraria che continua a logorare il corpo sociale, che continua a generare violenza, che continua a creare un mondo a parte dove non c’è più né ordine né rispetto e che continua a ignorare il dettato costituzionale?

Non ci appare stupefacente che in tanti secoli l’umanità che ha fatto tanti progressi in tanti campi delle relazioni sociali non sia riuscita ad immaginare nulla di diverso da gabbie, sbarre, celle dietro le quali rinchiudere i propri simili come animali feroci?” si chiede Gustavo Zagrebelsky giudice costituzionale dal 1995 al 2004 e presidente della Corte costituzionale nel 2004.

ABOLIRE IL CARCERE

Tutti i paesi europei più avanzati stanno drasticamente riducendo l’area del carcere (solo il 24% dei condannati va in carcere in Francia e in Inghilterra, in Italia l’82%). Il carcere è per tutti ma non serve a nessuno in pratica. I numeri parlano chiaro, la percentuale di recidiva è altissima. La stragrande maggioranza dei cittadini italiani non ha idea di che cosa sia una prigione per questo la invoca ma per gli altri” si legge nella prefazione al libro “Abolire il carcere” scritto da diversi giuristi che invocano appunto il passaggio a forme di pene non detentive, prevedendosi la detenzione solo in casi di grave turbamento sociale.

“La detenzione in strutture in genere fatiscenti e sovraffollate dev’essere quindi abolita e sostituita da misure alternative più adeguate, più efficaci, capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini, quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al termine della pena, oggi sistematicamente disattesa”. Questa richiesta non è nuova. Già nel 1979 Mario Gozzini, parlamentare del gruppo comunista, conosciuto per aver lavorato soprattutto alla legge sull’aborto e alla riforma penitenziaria del 1986 conosciuta appunto come “Legge Gozzini” scriveva “se non sia il caso di pensare per il 2000 a pene diverse per la reclusione in carcere” ricordando che “il livello di civiltà e di democrazia di uno Stato, trova nel sistema penitenziario un parametro tanto delicato quanto significativo. Se il carcere, soprattutto nel caso di pene di lunga durata, non “rieduca” il candidato, anzi lo ribadisce nella scelta criminale, quale tipo di pena sostituirvi nel prossimo secolo?.

 In effetti quella di Gozzini era una riflessione che poneva spalle al muro il sistema parlamentare italiano che, invece di affrontare il problema, non faceva altro che seguire l’onda di una destra pervasiva difronte alla quale anche il governo di centro-sinistra (formato da democristiani e socialisti) manifestava la sua debolezza tanto che anche la riforma penitenziaria del 1986 partì appunto da una richiesta di una parte della sinistra. “Il sistema penitenziario ha per finalità specifica, secondo la Costituzione, il reinserimento sociale del condannato ma questa finalità almeno tendenziale – scriveva Gozzini – costituzionalmente sancita, si scontra con la volontà comune dei cittadini che identificano il carcere come un luogo di segregazione”. Insomma, secondo l’opinione pubblica prevalente, chi infrange la legge e deve espiare la sua pena in carcere, viene tenuto lontano dal resto della società esterna e ha pochissimi rapporti con la propria famiglia in modo da perdere progressivamente ogni senso di comunità.

Tanto è vero che, per le nuove carceri, costruite negli ultimi quindici anni, con una spesa di migliaia di miliardi di lire all’epoca, si sono quasi sempre scelti i luoghi il più possibile lontani dai centri abitati. Al contrario, il pianeta carcere e i suoi abitanti non può essere considerato qualcosa di “totalmente diverso” da noi che ne stiamo fuori. È una parte della società che sconta la pena inflitta al termine della quale rientra pienamente nel corpo sociale.

Difronte al reato – scrive ancora Gozzini – non ci si può limitare a chiedere che i rei siano posti in condizione di non nuocere più: ci si deve innanzitutto interrogare se del reato commesso non esista una responsabilità collettiva, sia pure indiretta, in quanto non abbiamo saputo intervenire in tempo per risolvere un disagio e prevenirne le conseguenze criminose. La prevenzione, di cui tanto si parla, non è delegabile interamente agli organi polizieschi e sembra strano ma non lo è che le parole di Gozzini oggi trovino conferma nelle prime reazioni del Ministro della Giustizia Cartabia. Più ancora, aggiunge sempre Gozzini, “abbandonare il carcere a se stesso, ossia all’amministrazione statale che lo gestisce, significa rassegnarsi in partenza all’idea che il carcere serve soltanto a mettere in esecuzione la pena, intesa come retribuzione e vendetta, dimenticando che essa dovrebbe servire a “rieducare” chi ha infranto la legge, per essere poi accompagnato di nuovo nel corpo della società civile”. Sono passati più di trent’anni da quando si cercava una strada per “liberarsi” della necessità del carcere. Trent’anni in cui le migliori intenzioni si sono scontrate con la durezza di un’istituzione che sembra davvero irriformabile. Innanzitutto precisiamo che il carcere come luogo di pena non è sempre esistito anzi si può dire che si tratta, nella lunga storia dell’umanità, di un’invenzione relativamente recente probabilmente legata al nuovo tipo di società mercantile che ebbe a diffondersi dopo la fine del medioevo. Il carcere, tra l’altro, non produce neppure l’effetto di ridurre il tasso generale di criminalità ma consegue il risultato opposto, spesso affinando le capacità delinquenziali dei detenuti, riducendo il potere di deterrenza della pena.

Non ci stancheremo di ripetere che il carcere è una istituzione insostenibile sotto il profilo giuridico e politico, sociale e finanziario. Dev’essere quindi abolito e sostituito da altre misure capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al termine della pena.

Il primo ma indispensabile passo da fare è verso la riduzione del diritto penale ovverossia depenalizzando molte fattispecie di reati. Il passo successivo verso l’abolizione del carcere è ridurre le cosiddette previsioni penali, a partire dall’abolizione dell’ergastolo che, come oggi è stato riconosciuto, è una misura che non è compatibile con l’assetto costituzionale del nostro paese e contrario ai principi dell’UE che recentemente, a proposito del Recovery Fund, ha richiesto all’Italia di attuare una riforma del diritto penale che abolisca l’ergastolo. Abolire l’ergastolo consente di mettere un limite massimo alle pene detentive, rimodulandole verso il basso. Nella misura in cui il carcere sopravvive, per i reati più gravi seppure per pene di minore durata, esso deve diventare un luogo presidiato da diritti e garanzie, unica condizione affinché svolga una funzione rieducativa nei confronti di coloro che vi sono costretti. Anche a tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, è stato introdotto nella norma penale il reato di tortura, in attuazione degli obblighi assunti in sede internazionale. Non solo ma, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali del detenuto, dovrebbero essere introdotte “il numero chiuso” e le “liste di attesa” in modo che non si arrivi di nuovo a situazioni di sovraffollamento nelle carceri.

In sintesi se la commissione di un crimine fa sorgere nel colpevole il dovere di pagare il suo debito alla società, il carcere è davvero un modo efficace di pagare questo debito? Assolutamente no, è solo il modo di soddisfare una pulsione sociale che richiede la segregazione ed espiazione attraverso il dolore.

Non sarebbe più coerente una sanzione restitutoria e risarcitoria del danno commesso? Si tratta di una prospettiva nuova che potrebbe modificare profondamente le coordinate con le quali concepiamo il crimine e il criminale: da fatto solitario a fatto sociale; da individuo rigettato dalla società a individuo che ne fa comunque sempre parte, pur rappresentandone un aspetto patologico”. Queste le conclusioni cui giungono gli autori di un pregevole lavoro sull’abolizione del carcere “Abolire il carcere” scritto a più mani da Luigi Manconi e da altri giuristi favorevoli all’abolizione del carcere.

L’abolizione della prigione non è un’utopia. Il carcere è barbarie, in quanto vendicativo ed incurante della reale esperienza delle persone, strumento dell’antica retorica del castigo. Continuare a sostenere il sistema carcerario significa in fondo accettare la pratica della vendetta di Stato e della sua violenza, che non può appartenere ad uno Stato di Diritto in cui i diritti umani fondamentali, a partire dalla libertà individuale, vengono riconosciuti a tutti i cittadini.

Luglio 2021

(Avv. E. Oropallo)

 

Cronaca di un massacro

 

 

 

 

 

 

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