A PROPOSITO DI VIOLENZA SULLE DONNE
La Cedu condanna l’Italia per i commenti ingiustificati da parte dei giudici della Corte d’appello di Firenze nella sentenza di assoluzione per un presunto stupro di gruppo: «Dai giudici considerazioni riprovevoli e irrilevanti» – scrive la Corte – “considerando che la lingua e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello veicolino preconcetti sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare l’effettiva tutela dei diritti delle vittime di violenza contro le donne, nonostante un quadro legislativo soddisfacente».
Il caso riguardava un procedimento penale contro sette uomini accusati di stupro di gruppo alla Fortezza di Firenze, sei dei quali condannati in primo grado e poi assolti dalla Corte d’appello di Firenze. Una decisione legittima, ma assunta attraverso «ingiustificati commenti» riguardanti la bisessualità della presunta vittima, le sue relazioni e le relazioni sessuali occasionali intrattenute prima del presunto stupro di gruppo. “La donna – scrive “il Dubbio” – rivolgendosi alla Cedu, ha puntato il dito contro le autorità nazionali, che non sarebbero state in grado di tutelare il suo diritto al rispetto della vita privata e della sua integrità personale nel contesto del procedimento penale, lamentando anche una discriminazione fondata sul sesso”.
Da Strasburgo arriva un monito alle autorità, ricordando come l’obbligo di proteggere le presunte vittime di violenza di genere imponga anche il dovere di proteggere la loro immagine, dignità e vita privata, anche attraverso la non divulgazione di informazioni personali e dati estranei ai fatti. «Di conseguenza, il diritto dei giudici di esprimersi liberamente nelle decisioni, che è una manifestazione dei poteri discrezionali della magistratura e del principio di indipendenza giudiziaria – sostiene la Cedu – è limitato dall’obbligo di proteggere l’immagine e la vita privata delle persone che si presentano dinanzi ai tribunali da qualsiasi ingiustificata interferenza».
Sul tema della violenza sulle donne si sono scontrate recentemente Nunzia De Girolamo, ex politica e oggi nota conduttrice televisiva che, da “convinta garantista rinuncia alla presunzione di innocenza e reclama sentenze dure ed esemplari” quando di mezzo c’è un’accusa per violenza sessuale.
In tal caso, aggiunge in un’intervista al Corriere della Sera, “il garantismo non va più bene, occorrono sentenze dure ed esemplari”. In definitiva la ex deputata ritiene che vadano inasprite le pene nei confronti di chi si rende responsabile della violenza con la certezza che la pena vada adeguata alla gravità dei fatti.
Alla ex deputata risponde Livia Rossi, tesoriere della Camera Penale di Roma, ricordando che il garantismo non può essere confuso col “buonismo” in quanto si tratta di un principio dello Stato di diritto né si può dimenticare che il modello di giustizia penale adottato dalla nostra Costituzione non può essere utilizzato “come strumento di contrasto a fenomeni sociali”. “La componente emotiva – continua la Rossi – deve rimanere fuori delle aule di giustizia. Una condanna “esemplare” è espressione di vendetta più che di giustizia ed è tipico dei regimi totalitari…. Il garantismo dunque non può essere inteso a corrente alternata perché così facendo si traduce inevitabilmente nel suo opposto principio, quello del giustizialismo…Il problema – continua la Rossi – è culturale ma lo si deve affrontare puntando sulla prevenzione. La storia, anche recente, insegna che l’inasprimento delle pene non ha alcun potere deterrente”.
Se questa è una valutazione corretta, è altrettanto vero che il fenomeno non può essere affrontato solo sotto il profilo delle pene ma va affrontato nei suoi molteplici aspetti, a partire appunto da quello culturale. La cultura di un paese affonda le sue radici nel suo passato storico, nelle battaglie combattute per la parità dei diritti dei cittadini di ambo i sessi, per modificare la condizione della donna nella nostra società. Orbene, a tal fine, bisogna ricordare che fino a quando non è stata proclamata la Repubblica, la donna nella società italiana non aveva neppure il diritto di votare mentre nel resto d’Europa, la battaglia delle “suffragette” aveva costretto lo Stato liberale, all’inizio del diciannovesimo secolo a dare voce anche alle donne anche se questo non ha significato affatto liberare la donna dai pregiudizi vecchi di secoli ma solo fornito un altro strumento per far sentire anche la loro voce.
L’istituzione repubblicana in Italia non ha cancellato comportamenti profondamente radicati nelle tradizioni di questo Stato sia quando eravamo ancora “povera gente” ma anche quando il mito del consumismo ha fatto crescere l’euforia mercantile ma ha poco inciso sui costumi sessuali degli italiani.
Bisogna aspettare il 1956 per avere una legge che mettesse al bando la prostituzione di Stato: se il fenomeno continua a diffondersi per le strade e in ambienti protetti, questo conferma che non sarà certo una legge ad eliminare il problema ma che bisogna incidere profondamente nel tessuto sociale, a partire dalla scuola. Ebbene, dopo 70 anni dalla nascita della Repubblica, purtroppo il fenomeno della violenza nei confronti delle donne continua ad essere uno dei capitoli più drammatici di questa nostra società sessuofoba da un lato e profondamente sessista dall’altro. Anche la scuola a tutti i livelli – dopo la fiammata del ’68 – è arretrata di fronte agli attacchi dei benpensanti, timorosi che l’educazione sessuale a scuola potesse nuocere all’educazione dei giovani, dimenticando che proprio l’ignoranza su questo argomento ha perpetuato una condizione subalterna della donna anche sotto il profilo sessuale. Se si esaminano tutti i casi di “femminicidio” ebbene la maggior parte di essi trova origini in turbe di comportamento sessuale perché l’uomo continua a ritenere che la donna non possa essere altro che uno strumento di piacere per l’uomo per cui ella non può sottrarsi a questo ruolo e, quando ciò accade, l’uomo ricorre alla violenza.
Negli anni ’60 fu una coraggiosa battaglia di una donna del Sud che rifiutò il matrimonio riparatore a seguito del sequestro e della violenza sessuale subita dal rapitore. E fu solo grazie a questo episodio esecrabile che anche lo Stato clerico-fascista dovette accettare di cancellare una norma spregevole che era stata introdotta dal codice penale fascista. Anche la sinistra ufficiale – è meglio chiarirlo – malgrado tutto è rimasta silente sul fenomeno perché le discriminazioni sessuali erano anche all’interno dei partiti della cd. sinistra parlamentare. Non solo, perché la morale corrente era uno dei pilastri dell’ortodossia del partito. Basta ricordare che in tante occasioni, il partito interveniva nei confronti di chi infrangeva questa morale costringendolo a rientrare nei ranghi della famiglia e a troncare una relazione extraconiugale. Tantissimi sono i casi – a partire dallo stesso rapporto extraconiugale di Togliatti e della Nilde Jotti – che tutti conoscevano ma su cui era preferibile tacere. Macaluso, uno degli esponenti della sinistra storica, recentemente scomparso, ricorda come tutto il partito si era mobilitato nei suoi confronti per far cessare le sue scelte sentimentali che non erano in linea con il moralismo del partito.
Anche negli ultimi anni, la donna continua ad avere anche in politica una posizione subalterna a quella dell’uomo. Insomma, malgrado l’abnegazione del sesso femminile, malgrado il carico sociale che la donna è costretta a portare, i partiti tradizionali sono restii ad impegnarsi per una battaglia a favore delle donne che non sia quella che si combatte all’interno del Parlamento, anche se ad ogni nuovo episodio di violenza per qualche giorno si alza la voce in nome della integrazione sessuale ma poi si ritorna nei ranghi. Allora ci si chiede non c’è modo di mettere fine a questo stillicidio di morti? Ma se i lavoratori continuano a morire nei cantieri, se la fame del profitto – proprio in questi giorni – dimostra come la vita dell’uomo viene spesso sacrificata senza tanti scrupoli, se i nostri mari sono la tomba per migliaia di migranti, come pensate di eliminare questo fenomeno se non cambiamo la società? Ecco, se qualche morale possiamo trarre da questa realtà è che anche la battaglia per la liberazione delle donne rappresenta uno degli aspetti della battaglia più generale che è quella di cambiare la società. Ormai, per pandemia o per guerra, è facile che il genere umano possa scomparire dalla faccia della Terra ma questo pericolo non può fermare la marcia dell’umanità, la nostra convinzione che si possa ancora cambiare il corso della storia, cambiando le regole poste a base dello sviluppo della società.
Circa un secolo fa, nel corso della rivoluzione russa, una coraggiosa comunista denunciò, contro chi pensasse che il cambiamento potesse avvenire a colpi di decreto, che non si può liberare la donna dalle discriminazioni sociali se non si libera l’uomo dalle catene dello sfruttamento. In altre parole oggi questo significa mettere al primo punto del cambiamento la vita dell’uomo, rinunciando alla regola del profitto che è ancora un totem da abbattere e alla prospettiva di una crescita senza fine. Se si ritiene che si tratta di un pensiero “astratto”, vuol dire che stiamo costruendo la nostra tomba e neppure ce ne accorgiamo.
Maggio 2021
A proposito di violenza sulle donne