70 milioni di persone in fuga nel mondo
70 milioni di persone in fuga nel mondo
Nel 2018 il numero delle persone in fuga da guerre, persecuzioni e conflitti ha superato i 70 milioni. E’ il livello più alto registrato dall’Agenzia dell’ONU per i rifugiati. Il dato è contenuto nel rapporto annuale dell’UNHCR, “Global Trends 2018”. Una cifra che supera due volte il dato di vent’anni fa e stimata per difetto, sottolinea l’Agenzia ONU. Una migrazione che non risparmia nessuna regione del mondo ma che interessa in particolare i paesi più poveri che accolgono un terzo di tutti i rifugiati su scala mondiale. Pochi i rientri nei paesi di origine. Quello dei rifugiati è un numero molto elevato e ciò è dovuto ai conflitti e alle crisi umanitarie che purtroppo non accennano a trovare una soluzione. Un’impennata di questi numeri è stata registrata nel 2011 con la crisi siriana ma purtroppo si aggiungono nuovi conflitti come quello in Yemen, in Sud Sudan e conflitti che non accennano a trovare una soluzione come in Afghanistan. I rifugiati veri e propri a livello mondiale hanno raggiunto i 25 milioni solo nel 2018, di cui più di cinque milioni sono palestinesi. L’apporto maggiore comunque è dato da soli cinque paesi: Siria (6,7 milioni), Afghanistan ( 2,7 milioni), Sud Sudan ( 2,3 milioni), Myanmar ( 1,1 milioni), Somalia ( 0,9 milioni). Il dato più sorprendente, che sfata in qualche modo il racconto europeo di un continente invaso da orde incalcolabili di migranti, è quello che rileva come tra i 10 paesi che accolgono più rifugiati nel mondo, 4 sono tra i meno sviluppati del pianeta: Uganda, Sudan, Etiopia e Bangladesh sono infatti le nazioni che accolgono il 64% di tutti i rifugiati: si parla di una cifra intorno ai 13 milioni di persone. Segno evidente che la solidarietà è più sviluppata nelle fasce povere della popolazione mentre i paesi ricchi si occupano di alzare barriere e di costruire muri, terrorizzati da qualche centinaia di migliaia di persone che arrivano alle nostre frontiere: non fanno eccezione né l’UE né tanto meno gli USA. Non a caso, in una delle sue solite sortite, il nostro Salvini, tendenzialmente vicino all’amministrazione Trump ed alle sue misure per bloccare l’immigrazione dal Centro America, ebbe a dire che bisognava seguire l’esempio dell’Australia, senza però meglio specificare. In effetti, non aveva tutti i torti perché è stata l’Australia, il primo paese a sperimentare la soluzione di subappaltare a paesi terzi una parte della gestione dei richiedenti asilo. Questa politica di esternalizzazione, che riduce i rifugiati a moneta di scambio, è fonte di ispirazione per i governi europei e di sdegno per i difensori dei diritti umani. Questa politica, avviata all’inizio degli anni 2000, poggia su accordi siglati con i due paesi poveri vicini, in cambio di un indennizzo economico. Questi Stati – in mezzo all’Oceano Indiano- sono disposti a tener reclusi i migranti nei centri extraterritoriali, costruiti a spese di Canberra. In effetti, i conservatori ideatori di questa strategia, hanno rilevato una netta diminuzione degli arrivi irregolari. E’ quanto sta accadendo anche in Europa, se pensiamo ai migranti fermati sulle coste turche in cambio di fondi cospicui offerti al governo turco o agli accordi sottoscritti dall’allora Ministro degli Interni Minniti con alcuni paesi libici per bloccare in Libia i migranti provenienti dal Centro Africa. La stessa soluzione che ha adottato Salvini il quale, in intesa con il governo libico, sta chiudendo le rotte dell’immigrazione nel Mediterraneo. Il 26 settembre 2014, Scott Morrison, allora ministro australiano per l’immigrazione, annunciava la firma di un accordo con la Cambogia. Negoziato in segreto, prevedeva il trasferimento sul suolo cambogiano di parte dei rifugiati ammassati sull’isola di Papua, in pieno Oceano, in cambio di 40 milioni di dollari australiani (25 milioni di euro) come sostegno allo sviluppo per Phnom Penh. Secondo un rapporto del Parlamento australiano, tra il 2012 e il 2017 la politica di detenzione extraterritoriale dei richiedenti asilo sarebbe costata allo Stato quasi 5 miliardi di dollari (più di tre miliardi di euro). Un prezzo salato per la reclusione dei 3127 rifugiati e richiedenti asilo. La ONG Medici senza frontiere, espulsa lo scorso ottobre dalle autorità di Nauru dopo aver trascorso undici mesi tra i rifugiati, descrive una popolazione “esasperata”e riferisce di “un numero allarmante di tentati suicidi e di autolesionismo”. Nulla di nuovo sotto il sole:nelle prigioni libiche marciscono migliaia di esseri umani, come i rifugiati in provenienza dalla Siria e dall’Iraq e paralizzati nei centri di accoglienza turchi o i profughi siriani che sopravvivono in condizioni di estremo disagio sulle isole greche. Non è questa la soluzione, a meno che non si vogliano riprendere le soluzioni adottate dal nazismo nei confronti degli ebrei, zingari, comunisti e omosessuali. Il compito di chi oggi andrà ad occupare l’emiciclo del Parlamento europeo e di chi rappresenterà mezzo miliardo di cittadini nella Commissione non sarà quello di completare l’opera dei sovranisti o dei falsi moralisti che di fatto hanno chiuso l’area europea ad ogni forma di immigrazione ma quello di studiare un piano di sviluppo economico, diverso dal sistema economico recente, che si preoccupa solo di produrre profitto, per accogliere queste masse di migranti che busseranno nei prossimi anni alle porte del nostro continente, di lanciare un grande progetto e lavorare per i bisogni dell’umanità, di dare un futuro alle nuove generazioni. Progetto difficile ma non irrealizzabile laddove vi sia la volontà politica di costruire un mondo basato sulla non discriminazione, sulla solidarietà sociale, su un sistema di produzione che serve ai bisogni dell’umanità e non per i profitti per le grandi imprese mondiali che producono solo conflitti commerciali e guerre. Un progetto certamente ambizioso ma l’unico in grado di assicurare uno sviluppo possibile.
Giugno 2019
(Avv. E. Oropallo)