PROTEZIONE UMANITARIA E PERMESSO DI SOGGIORNO PER CALAMITA’
Il principio è stato affermato dalla I Sezione Civile della Suprema Corte con l’ordinanza n. 2563/20, depositata il 4 febbraio.
Il caso. Il Tribunale di Ancona aveva respinto il ricorso proposto da un cittadino del Bangladesh avverso il provvedimento con cui la Commissione territoriale aveva a sua volta rigettato la domanda di protezione internazionale proposta, con esclusione della sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria. Dal racconto del richiedente non risultano infatti circostanze di pericolo richieste dalla Convenzione di Ginevra, fermo restando che la generica gravità della situazione socio-economica del paese di origine e la mancata possibilità di esercitare le libertà democratiche non si traducono nel timore di una grave persecuzione.
Secondo la giurisprudenza, tra i motivi per cui è possibile riconoscere la protezione umanitaria non rientrano né l’integrazione sociale e lavorativa in Italia, né le condizioni di indigenza o i problemi di salute “necessitando, invece, che tale condizione sia l’effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza” (cfr. Cass. Civ. n. 28015/17). E’ dunque necessaria un’effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente per verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione dei diritti umani “al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale”.
Il catalogo dei “seri motivi”che possono dunque fondare la richiesta di protezione umanitaria risulta aperto, non essendo spazi tipizzati o predeterminati dal legislatore neppure in via esemplificativa.
Calamità. In tale contesto, deve essere inserito l’art. 20-bis d.lgs. n. 286/1998 (inserito dal d.l. n. 113/2018, conv. in l. n. 132/2018) che prevede espressamente il permesso di soggiorno per calamità «quando il Paese verso il quale lo straniero dovrebbe fare ritorno versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza». Il Collegio afferma dunque che «in sede di interpretazione evolutiva, tale norma non può non essere utilizzata dal giudice in chiave interpretativa al fine di chiarire anche il precetto elastico di cui all’art. 5, comma 6, d.lgs. n. 286/1998».
In conclusione, viene dunque affermato che “ai fini del riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, in sede di interpretazione evolutiva, ai fini della valutazione della vulnerabilità del richiedente – che nel proprio racconto ritenuto credibile abbia posto alla base della sua immigrazione ripetute alluvioni subite nel Paese di origine – va considerato altresì l’art. 20-bis d.lgs. n 286/1998 (inserito dal d.l. n. 113/2018, conv. in l. n. 132/2018) che ha espressamente previsto il permesso di soggiorno per calamità, da concedere “quando il Paese verso il quale lo straniero dovrebbe fare ritorno versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza”, permesso che ha la durata di sei mesi, è rinnovabile per un periodo ulteriore di sei mesi se permangono le condizioni di eccezionale calamità suindicate, è valido solo nel territorio nazionale e consente di svolgere attività lavorativa, pur non potendo essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
La Corte accoglie il ricorso e cassa il decreto impugnato con rinvio al Tribunale in diversa composizione.
20/2/2020
Fonte: www.dirittoegiustizia.it