sintesi della relazione “La disciplina del licenziamento individuale nell’UE e il JOB’S ACT”
JOB’S ACT e il licenziamento individuale nell’UE
Con il d. lgs. 4.3.2015 n. 23 il Governo Italiano ha inteso procedere alla soppressione – sia pure in
maniera progressiva – dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori nella prospettiva che la
liberalizzazione dei licenziamenti possa avere un positivo impatto sul processo di ripresa
economica. Era da anni, ormai, che i politici di ogni fede – in particolare quelli dell’area
berlusconiana – avevano tentato di procedere all’eliminazione tout-court dell’obbligo di reintegra
nel caso di licenziamento illegittimo. Forse non è un caso che una (contro) riforma di tale portata sia
stata licenziata da un governo di centro-sinistra, a dimostrazione dello spostamento a destra
dell’asse della politica italiana. In effetti con la istituzione delle “tutele crescenti” (afferenti la sola
misura delle mensilità indennitarie) si è scelto di indebolire la già precaria situazione dei lavoratori,
lasciando che il patronato italiano – che si è sempre collegato con il governo – qualunque fosse il
colore politico – potesse contare su una classe operaia vinta e sfiduciata. Solo il sindacato legato alla
sinistra storica, ma non tutto neppure, ha inteso denunciare questo patto scellerato tra patronato e
potere politico. Ma come ha precisato qualche imprenditore più illuminato non era neppure questo
l’obiettivo principale dell’imprenditoria italiana che mira soprattutto ad ottenere finanziamenti che
la mettono in grado di competere sul piano internazionale sapendo che questa riforma non inciderà
se non in maniera marginale sulla ripresa economica, senza la quale non ci sarà incremento neppure
del numero degli occupati.
Non dimentichiamo neppure che il Governo ha più volte ricordato che questa riforma ci era stata
richiesta dall’Europa per avviare la ripresa produttiva.
E neppure è vero – come preciseremo – in quanto la tutela del lavoratore in Europa presenta molte
analogie con la tutela del lavoratore prevista dallo Statuto dei lavoratori.
In effetti, l’UE ha il potere di dettare agli Stati membri regole comuni in materia di licenziamento
individuale.
Lo prevede l’art. 153.1.d) del Trattato sul funzionamento dell’Unione (TFUE) che le attribuisce la
competenza di adottare direttive di armonizzazione (ovvero di definire standard minimi comuni di
tutela) in relazione alla “protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro”.
Pur in assenza di una direttiva sul licenziamento individuale, il diritto europeo incide comunque su
alcuni profili delle discipline nazionali, grazie, in primo luogo, a disposizioni contenute in altre
direttive in materia di lavoro.
Limiti sono posti alla possibilità di licenziare un lavoratore che rifiuta la trasformazione del
rapporto da tempo pieno a part-time (o viceversa), anche se non è esclusa la possibilità di fondare il
recesso su “altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità di funzionamento dello
stabilimento” (art. 5.2 direttiva 97/81). Analogamente, la direttiva 2001/23 (art. 4.1) esclude che
il trasferimento dell’azienda o di parte di essa possa costituire valido motivo di licenziamento.
Dall’insieme di queste disposizioni emerge un quadro composito di motivi illegittimi di
licenziamento ineludibili per i legislatori nazionali, tra i quali va ricordato come principio di
carattere generale il divieto di licenziamento discriminatorio.
La novità più rilevante in materia sul piano delle fonti dell’UE è rappresentata però dall’art. 30 della
Carta dei diritti fondamentali, resa fonte giuridicamente vincolante con l’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona (art. 6.2 TUE). Da ciò consegue che il principio enunciato in tale norma per cui
“ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato” costituisce oggi
parte integrante del diritto dell’UE.
L’art. 30 della Carta di Nizza rappresenta oggi un riferimento obbligato sia per il legislatore
europeo che per la Corte di giustizia, ma la sua rilevanza resta condizionata dall’ambito di
applicazione del diritto dell’UE, dal momento che “le disposizioni della Carta si applicano alle
istituzioni, agli organi ed agli organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà,
come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione” (art. 51, co. 1,
Carta).
E’ vero però che i “paletti” posti dalle istituzioni dell’UE a difesa del riparto di competenze tra
Unione e Stati membri si stanno rilevando meno solidi del previsto: la giurisprudenza interna di
molti paesi (Portogallo, Spagna, Francia, Irlanda, Belgio) testimonia infatti un crescente utilizzo
dell’art. 30 della Carta come strumento di interpretazione del diritto interno, al fine di rafforzare le
tutele da questo previste o di colmarne le lacune. Anche in Italia non mancano sentenze che
richiamano la Carta di Nizza per fondare decisioni favorevoli al lavoratore licenziato. E’ il caso
della sentenza della Cassazione (Cass. sez. lav. 3 dicembre 2010, n. 21967), nella quale l’art. 30 è
richiamato per affermare che la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost. non
preclude al giudice la possibilità di valutare se nel caso concreto questa prevalga o meno sulla tutela
del posto di lavoro.
In una precedente sentenza (Cass. 11 novembre 2002,15822), la norma della Carta è stata usata
dalla Cassazione per escludere l’applicazione della legge dello Stato di New York a un lavoratore
italiano ivi impiegato, in ragione del fatto che questa, ammettendo il licenziamento libero, si pone in
contrasto con i principi di ordine pubblico nazionale ed europeo.
L’art. 30 sembra dunque destinato ad acquisire un rilievo giuridico significativo negli ordinamenti
nazionali, al di là dei vincoli posti dalla stessa Carta. Anche per questo motivo è opportuno
esaminarne il contenuto.
La norma è generica nella sua formulazione, limitandosi a dettare il principio per cui ogni
licenziamento va giustificato, senza in apparenza fornire alcuna indicazione circa le ragioni
legittimamente adducibili e tanto meno circa le sanzioni da applicare quando queste manchino. Dal
silenzio in merito della Carta non si può tuttavia dedurre l’assenza di qualsiasi criterio per definire il
“contenuto essenziale” del diritto riconosciuto dall’art.30, che, può essere limitato solo per ragioni
d’interesse generale o per tutelare altri diritti e libertà fondamentali (art.52.1).
Altri principi in materia di licenziamento sono dettati in particolare dall’art. 24 della Carta Sociale
Europea (fonte del Consiglio d’Europa) e dalla Convenzione OIL n. 158/1982. L’art. 24 (introdotto
nella Carta Sociale solo nel 1996 in occasione della sua revisione) è stato ratificato da 15 Stati
dell’UE, tra i quali l’Italia; la Convenzione OIL, invece, soltanto da 9 (tra i quali non c’è l’Italia).
L’art. 24 ribadisce il principio per cui qualsiasi licenziamento deve fondarsi su una valida ragione
legata o all’incapacità e al comportamento del lavoratore, o ad esigenze organizzative dell’azienda.
Detta ragione deve essere specificata in una fonte vincolante per l’ordinamento interno e deve
essere sempre comunicata al lavoratore in modo che questi possa valutarne la fondatezza ed
eventualmente contestarla davanti a un’autorità terza e imparziale. L’assenza di una valida ragione
deve dare al lavoratore diritto a un adeguato indennizzo o ad altra “tutela appropriata”.
Si tratta di principi di carattere generale, a loro volta riflesso di quelli adottati dalla Corte di
Strasburgo, tra i quali, in primo luogo il principio di proporzionalità, per il quale la limitazione di
un diritto è giustificata solo se necessaria a tutelarne un altro di pari valore e solo se non esistono
altre vie per perseguire tale finalità: un principio che, se applicato al licenziamento, implica un
rigoroso bilanciamento tra esigenze della produzione e diritto al lavoro, fondato sul criterio
dell’extrema ratio del recesso.
E qui cogliamo un aspetto poco edificante della norma interna la quale inibisce al Giudice di
verificare se sussiste o meno la proporzionalità della sanzione ma solo di verificare se sussiste o
meno il fatto imputato al lavoratore e a quantificare l’indennizzo. La nuova disciplina dunque,
marginalizza il ruolo giudiziale aprendo ampi spazi al potenziale arbitrio del datore di lavoro.
In secondo luogo il principio di effettività, per il quale la sanzione per la violazione di un diritto
deve avere il carattere dell’ “adeguatezza, effettività e dissuasività”.
Le fonti internazionali impongono sia sempre garantito al lavoratore il diritto di contestare davanti
ad un’autorità terza le ragioni addotte a fondamento del licenziamento, anche quelle di carattere
economico. Il che contrasta con la riforma che prospetta l’insindacabilità delle scelte gestionali ed
organizzative dell’impresa, a fronte di un mero diritto a un indennizzo per il lavoratore.
L’aggravarsi della crisi nel corso del 2011 ha però indotto le istituzioni dell’Unione a dotarsi di
nuovi e più efficaci strumenti per indirizzare le politiche economiche degli Stati, alle quali come
detto quelle occupazionali sono strettamente legate.
E’ in questo quadro che prendono forma pressanti richieste al governo italiano di modificare la
vigente legislazione lavoristica centrata proprio sul tema della disciplina del licenziamento. L’invito
a rivedere la normativa in tema di licenziamenti individuali è inserita nelle Raccomandazioni sul
programma nazionale di riforma 2011. Al Governo italiano il Consiglio raccomanda di attuare il
decentramento della struttura contrattuale e di “rafforzare le misure intese a combattere la
segmentazione del mercato del lavoro, anche rivedendo aspetti specifici della legislazione a tutela
dell’occupazione, comprese le procedure che disciplinano i licenziamenti”.
Il varo della riforma del mercato del lavoro del Governo Monti non poteva dunque ignorare il tema
del licenziamento, mettendo mano all’art.18 dello Statuto.
Presupposto implicito della necessità di riformare la disciplina italiana sui licenziamenti sarebbe la
sua asserita eccessiva rigidità.
La diffusa convinzione che quello italiano sia un regime iperprotettivo è, però, smentita dai dati
dell’OCSE. Gli indici OCSE che segnalano la c.d. rigidità in uscita collocano attualmente l’Italia al
di sotto della media europea. E l’analisi comparata conferma che l’Italia non costituisce affatto un
caso anomalo nel quadro europeo per la rigidità della sua disciplina del licenziamento.
In tutti gli ordinamenti nazionali il licenziamento per motivi economici è ammesso ma sottoposto al
controllo del giudice. La giurisprudenza italiana degli ultimi anni ha progressivamente
“liberalizzato” il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Per quanto concerne l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori va ricordato che la reintegra è un rimedio
ampiamente diffuso negli ordinamenti europei. I paesi nei quali il sistema sanzionatorio si
fonda in maniera pressoché esclusiva sulla tutela indennitaria sono la minoranza.
In molti paesi la legge prevede delle tutele speciali durante lo svolgimento del giudizio instaurato su
ricorso del lavoratore contro il licenziamento illegittimo, a garanzia della continuità
dell’occupazione. In alcuni casi, il principio sul quale queste si fondano è che il licenziamento non
produce effetti finché il giudice non ne ha accertato la legittimità; in altri, il lavoratore può chiedere
al giudice di reintegrarlo nel posto di lavoro a seguito di un giudizio “sommario” di bilanciamento
degli interessi in gioco (così in Germania, Austria, Grecia, Belgio e Irlanda).
Il sistema tedesco è stato evocato a più riprese (e spesso a sproposito) nel dibattito che ha
accompagnato il processo di riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. In Germania la
reintegra è disposta dal giudice in caso di licenziamento illegittimo; il datore può però chiedere la
risoluzione del rapporto e il giudice dichiara risolto il rapporto e condanna il datore a
corrispondere un indennizzo. Spesso la controversia si risolve però prima della sentenza con un
accordo tra le parti che garantisce un più alto indennizzo al lavoratore.
Le vere anomalie italiane, anche con riferimento al diritto alla reintegra, sono altre. E’ un’anomalia
in primo luogo il fatto che dal generale regime di tutela siano esclusi i lavoratori impiegati in unità
produttive con meno di 16 dipendenti. Nei (pochi) paesi oltre all’Italia dove è prevista, la soglia
dimensionale è riferita ad un numero inferiore di lavoratori (10 in Francia e Germania, 5 in Austria)
ed ha un impatto non paragonabile a quello che essa produce nel mercato del lavoro italiano.
La disciplina applicata alle piccole imprese in Italia può allora essere considerata una vera anomalia
nel panorama europeo, all’origine di una macroscopica segmentazione del mercato del lavoro che
attraversa i c.d. garantiti. Un’anomalia tanto più grave considerando che buona parte dei lavoratori
italiani resta così priva di una tutela effettiva contro il licenziamento, visto il basso livello di
indennizzo ad essi garantito dalla legge (questo sì ben inferiore alla media europea). (l.604/66).
E’ vero che la crisi economica ha accelerato i processi di riforma della disciplina dei licenziamenti
in atto in molti paesi dell’U.E. La Spagna è forse il caso più significativo: con la riforma del 2010 è
è stata drasticamente ridotta l’entità dell’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato e sono
stati resi più facili i licenziamenti per motivi economici individuando “il motivo oggettivo
legittimo” di licenziamento. Anche il nuovo codice del lavoro ungherese, la tutela reale è stata
sostituita da una tutela risarcitoria limitata ad un massimo di 12 mensilità.
Negli altri Stati dell’UE la normativa ha subito modifiche meno rilevanti ma quasi sempre nel senso
di rendere più agevoli e meno costosi i licenziamenti.
Dall’analisi comparata – e di nuovo dagli indici OCSE – non esiste alcuna relazione tra la richiesta
di revisione della disciplina dei licenziamenti da parte delle istituzioni europee ed il grado di rigidità
della stessa, visto che ai paesi del Nord – che pur prevedono una garanzia più forte – non è stato
chiesto di riformare il sistema come ai paesi dell’area mediterranea.
In conclusione, se non è l’Europa a chiederlo, bisogna chiedersi quale sia l’obiettivo che persegue la
riforma. Essa tende – come dicevamo prima – all’indebolimento del potere contrattuale e
dell’autonomia del sindacato per cui il decentramento contrattuale e libertà di licenziamento
diventano, in tale prospettiva, le due facce della medaglia.
Sintesi curata dall’avv. E. Oropallo