LA CRISI DEMOGRAFICA IN EUROPA E IN ITALIA
Nel 2050 ben 1,5 milioni di persone ultra sessantacinquenni popoleranno il mondo (il doppio di quanti sono oggi). Il dato è riportato nel World Population Ageing 2019 dell’ONU. Anche nei paesi emergenti la popolazione anziana supererà quella più giovane.
“Il pianeta – come scrive “La Repubblica” del 3.2 – sarà sempre più vecchio”. In termini percentuali rispetto al totale della popolazione, la quota di persone di età superiore a 65 anni passerà da circa il 6% attuale a circa il 16% del 2050. Un incremento esponenziale, che corre di pari passo alla diminuzione delle nascite.
Il progressivo e costante invecchiamento della popolazione è oggi il fattore che meglio spiega l’anemia della crescita economica mondiale. Anche se bisogna tener conto di un altro fattore che frena la crescita, derivante dalla crisi di sovrapproduzione di beni in un mondo che vede ancora gravi differenze tra paesi capitalisti e paesi sottosviluppati.
A fronte di una persistente penuria di beni per una gran parte degli abitanti di questo pianeta, vi è una parte del mondo sviluppato che spedisce ogni anno direttamente al macero milioni di tonnellate di prodotti alimentari. Per ritornare al problema dell’invecchiamento, si ritiene che le migrazioni possano da sole contribuire alla risoluzione del problema. Purtroppo non è così. “Al punto in cui siamo arrivati – scrive sempre il quotidiano – le migrazioni non basteranno a rimettere in equilibrio il sistema. Secondo le proiezioni Eurostat, guardando al 2100, in Italia la popolazione dovrebbe scendere dagli attuali 60 milioni a 45 milioni, o nell’ipotesi di “no migration” addirittura a 30 milioni, con un drastico ridimensionamento degli spazi della crescita macroeconomica come pure del benessere individuale”.
Purtroppo, sempre per parlare dell’Italia, fino agli inizi degli anni ’90 il numero dei nati vivi era superiore a quello dei morti, scendendo poi drasticamente al di sotto di quello dei decessi. A creare le condizioni di una ripresa della natalità serve un lavoro giovanile maggiormente precoce e meno precario. A tener conto del trend attuale, sembra quasi impossibile rovesciare questa tendenza che va di pari passo con l’espatrio di centinaia di migliaia di giovani che lasciano il paese per trovare un lavoro migliore all’estero. Se il sistema non è ancora crollato, è anche dovuto al fatto che esiste una larga fascia di lavoratori mal pagati, oltre allo sfruttamento di centinaia di migliaia di migranti clandestini. Non si tratta di un fenomeno nuovo se nel 2015 l’OCSE lanciava l’allarme prevedendo che nel 2020 (ossia oggi) la popolazione in Europa in età produttiva calerà di 7,5 milioni di unità chiarendo che “senza nuovi lavoratori l’industria è a rischio”. Molti paesi della UE, denunciava ancora l’OCSE, vedono i profughi come una minaccia mentre i migranti possono essere un arricchimento.
E’ quanto affermava Tito Boeri quando era ancora direttore dell’INPS ma che nessuno politico ha voluto mai ascoltare. “La realtà è tale – ammoniva la Commissione europea –che in molti paesi europei il fabbisogno dei rispettivi mercati del lavoro non può più essere coperto con manodopera esclusivamente indigena”. A seguire la strada indicata dalla Commissione, è stata la sola Germania. La Fondazione Bertelsmann ha recentemente stabilito che per mantenere stabile fino al 2050 il numero dei suoi lavoratori e il suo sistema sociale, la più grande economia europea ha un fabbisogno medio annuo di mezzo milione di migranti ed è per questo motivo che la Germania accoglie a braccia aperte i richiedenti asilo. Nella crisi balcanica – di qualche anno fa – in un sol colpo la Germania ha aperto le frontiere ad un esercito di migranti, circa 800.000 persone, mentre l’Ungheria di Orbàn tornava a chiudere le frontiere e il nostro ministro dell’Interno italiano, chiudeva i porti all’immigrazione. Il problema è che non basta accogliere i migranti ma occorre dar loro anche un’adeguata formazione per immetterli nel mondo del lavoro. Per la durata della loro formazione addirittura sono “ammessi” in Germania anche se non sono ancora riconosciuti come profughi.
Quali soluzioni si potrebbero adottare oggi in Italia per evitare il peggio di qui a qualche decennio? Innanzitutto, favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, prevedere contributi e assistenza per le giovani coppie, visibilità al popolo dei migranti, limitando così il ricorso al lavoro nero e regolarizzando la loro presenza nel paese.
Esattamente il contrario di quello che avviene oggi, per cui è facile immaginare che l’Italia farà fatica nei prossimi decenni ad uscire dalla crisi che già oggi vede il nostro paese come fanalino di coda dell’UE.
Scriveva qualche tempo fa su “La Repubblica” Alessandro Rosina – docente di demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano – :“Abbiamo buone ragioni per temere di trovarci nell’anticamera di una lunga fase di declino destinata a caratterizzare il resto del secolo. Non siamo i soli, ma siamo più soli degli altri e l’Italia mostra di anticipare e accentuare tale tendenza: nessun altro grande paese europeo si trova in sistematica diminuzione. La fecondità anziché diminuire dopo la lunga congiuntura negativa e poi risalire, sembra essersi solo riposizionata su livelli più bassi. Le nascite (nel 2018) risultano del 22% rispetto al dato del 2008, mentre le migrazioni (dato del 2018), sono arrivate a 160.000 facendo diminuire la popolazione ed aumentando il peso della componente sociale”, concludendo che “denatalità ed espatri sono spie sensibili della difficoltà a costruire un futuro solido per sé e per chi verrà dopo”.
Se rinunziamo a prendere quelle misure che favoriscono l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, rimane solo – conclude amaramente il docente – “rimane solo la rassegnazione e l’assuefazione a questi e a peggiori dati”.
20/02/2020