SEGNALI DI GUERRA
Parte 1°: La guerra di Trump
Era solo qualche mese fa che Trump annunciava il ritiro delle truppe impegnate in Iraq ritenendo ormai vinta la guerra contro l’ISIS. In effetti, malgrado il pesante coinvolgimento delle truppe americane nel conflitto in corso, alimentato anche dalla presenza in campo del potente alleato turco, Trump vuole essere ricordato come un presidente che chiude la guerra e riporta a casa i soldati anche perché “quella parte del mondo interessa sempre meno gli americani, da quando hanno raggiunto l’autosufficienza energetica. Il petrolio del Golfo è essenziale per altri. Cina e India, Europa e Giappone- non per loro”. Così scriveva Federico Rampini su La Repubblica del 2 u.s.. L’opinione pubblica americana appoggia queste scelte anche se vi è un apparato militare che si oppone con tutte le sue forze a questa smobilitazione programmata dal governo americano. Contrasto, però, solo apparente in quanto gli interessi della potente macchina da guerra americana consigliano a Trump di non rinunziare alla presenza nel Golfo Arabo, lasciando che l’Iran possa essere alla fine il vero vincitore della guerra. Un pezzo del popolo iracheno si sente sempre più vicino all’Iran mentre l’influenza politica-religiosa di Teheran continua ad espandersi, malgrado un’economia in pezzi. E’ bastato un piccolo episodio a far cambiare idea a Trump: il 27 dicembre un contractor americano viene ucciso dal lancio di razzi contro una base irachena vicino a Kirkuk, ferendo anche 4 soldati americani. Gli Stati Uniti accusano una milizia sciita irachena filo iraniana che nega ogni responsabilità. La reazione americana non si fa attendere: il 29 dicembre bombarda cinque siti degli Hezbollah uccidendo 25 miliziani e ne ferisce una cinquantina. E’ il governo iracheno che condanna l’attacco, ritenendolo una violazione della sovranità irachena e degli accordi che erano stati presi con gli Stati Uniti. Il 31 dicembre, dopo i funerali dei combattenti americani, la gente si è diretta all’ambasciata americana, scandendo slogan contro l’America, lanciando pietre, sfondando il cancello di accesso e appiccando il fuoco nell’area di ricezione. La situazione a questo punto non poteva che precipitare. Il segretario della difesa americano annuncia l’immediato dispiegamento di un battaglione di fanteria (750 uomini) mentre l’ayatollah Ali khomeini, la massima autorità religiosa iraniana, condannava il bombardamento americano sul suolo iracheno. A questo punto nasce spontaneo chiedersi perché Trump abbia colto questo episodio per ritornare a rimarcare la presenza americana in Iraq. Ebbene, c’è una vicenda giudiziaria in pieno sviluppo negli USA per processare il presidente Trump per violazione della Costituzione. Buona parte dell’opinione pubblica ha abbandonato Trump che rischia seriamente di perdere il potere e veder travolta qualsiasi prospettiva di ripresentarsi come candidato ufficiale dei conservatori per le prossime elezioni di novembre. In questo quadro, è chiaro che un piccolo successo a scala mondiale, una modesta riaffermazione della potenza militare USA, possa servire a cambiare gli umori degli elettori americani. In realtà, come ha anche affermato, Trump non è favorevole ad una nuova guerra contro l’Iran ma solo a dimostrare che egli USA non si lasciano pestare i piedi da nessuno. E così la notte del 3 gennaio, all’una e quarantacinque di notte, tre missili sparati da un drone americano colpisce due auto a bordo delle quali si trovano il generale iraniano Qassem Soleimani, una delle massime autorità miliari iraniane e il vice-capo della milizia irachena hezbollah che solo qualche giorno prima con i suoi collaboratori lanciando slogan rabbiosi contro gli USA. L’azione voluta da Trump senza consultare il Congresso, segna una svolta nella campagna condotta contro l’Iran. “Soleimani – si giustifica Trump – proponeva attacchi contro diplomatici e militari USA – abbiamo agito per fermare la guerra, non per iniziarla”. Qualcuno ricorderà che per invadere l’Iraq – il presidente Bush ed i falchi di Washington – avevano messo in giro la notizia che Assad stava producendo armi chimiche. Una falsa notizia, come si ammetterà qualche anno dopo, dopo aver messo a ferro e fuoco il paese e tutto il Medio Oriente. E la decisione di inviare migliaia di soldati in Iraq, la dice lunga sulle intenzioni di Trump, senza contare che tutto il Medio Oriente trema in attesa di una reazione dell’Iran che certamente arriverà. “La vendetta delle milizie sciite – scrive sempre La Repubblica del 4 gennaio – potrebbe colpire obiettivi sauditi o i militari USA che si trovano in Iraq da ormai 17 anni”. L’attentato solleva già le prime polemiche oltre-atlantiche. L’ex vice-presidente democratico Boiler ha dichiarato che uccidendo Soleimani Trump “ha gettato un bastone di dinamite in una polveriera” mentre il primo ministro iracheno, Abdel Mahdi si è detto convinto che l’attentato al generale dei Soleimani potrebbe far scoppiare una nuova guerra. In un’intervista rilasciata a “La Repubblica” del 5 gennaio Gary Sick, ex consigliere di Jimmy Carter, durante la crisi degli ostaggi all’Ambasciata USA di Teheran condannava duramente la decisione di Trump dichiarando che “l’uccisione spettacolare di Qassem Soleimani è un errore terribile, senza precedenti”. “Trump – aggiunge – ha intrapreso la via dell’escalation quando ha voltato le spalle all’accordo sul nucleare iraniano, voluto dal suo predecessore, frutto di un imponente sforzo diplomatico. Uscire, è stato il deliberato sabotaggio di ogni ulteriore progresso. Sanzioni severe hanno fatto perdere all’Iran il 40 % del suo reddito nazionale. Teheran ha messo in atto azioni sempre più gravi ma rispondere all’assalto dell’ambasciata americana a Bagdad con un atto di guerra è un gesto molto grave, pieno di conseguenze”. “In una volta – aggiunge – si sono capovolti gli equilibri della regione”. La stampa americana è unanime nella condanna del gesto di Trump, parlando di un attentato che, come quello di Sarajevo, potrebbe cambiare i destini del mondo. Se l’obiettivo di Trump non secondario fosse stato di distrarre l’attenzione dei media dalle sue grane giudiziarie, è un brutto segno perché i rapporti con l’Iran saranno compromessi per molti anni.
Parte 2° – Il grande contagio
Il raid americano rischia di scatenare un vortice di interventi militari che coinvolge il Medio Oriente e che può allargarsi fino al Nord Africa. A partire proprio dall’Iran che vuole allargare l’influenza del Golfo Persico fino al Libano, mentre la Turchia vuole aumentare la sua influenza nel Mediterraneo. Non a caso Erdogan ha già inviato un primo contingente turco in Libia dichiarando di voler dare un aiuto al presidente libico nella sua lotta contro le milizie di Haftar che stanno marciando verto Tripoli. E non dimentichiamo che la Russia ha sempre coltivato i rapporti con Damasco per avere libero accesso al Mediterraneo. La battaglia fra USA e Iran è già cominciata. Il presidente Trump, rispondendo alle minacce iraniane di colpire Tel Aviv e altri 35 obiettivi militari, ha avvisato il Congresso che “se l’Iran ci attacca ci sarà una reazione sproporzionata” non solo contro obiettivi militari ma anche contro “siti di alto livello, importanti, culturali”. La dichiarazione di Trump ha creato grave imbarazzo anche tra gli uomini della sua amministrazione. Il segretario di Stato Mike Pompeo, si affretta a smentire le dichiarazioni di Trump. Il ministro dell’informazione iraniano definisce il Presidente americano “terrorista in doppio petto” mentre il Parlamento iracheno decide – lo riferisce La Repubblica del 6 u.s. – di chiedere l’immediato ritiro delle truppe americane dal paese e la sospensione delle attività della coalizione internazionale anti Isis nel timore di attacchi ai suoi militari, ribadendo che l’attentato costituisce una grave violazione della sovranità nazionale. Ma l’evento più grave è lo strappo definitivo da parte di Teheran di quell’accordo del nucleare voluto da Obama nel 2015. E’ proprio la televisione iraniana a dare l’annuncio: d’ora in poi l’arricchimento dell’uranio “avverrà senza restrizioni ed in base alle esigenze tecniche”. John Limbert – oggi settantenne – uno dei 55 ostaggi nell’ambasciata USA a Teheran, ex ambasciatore, ex vice segretario di Stato e professore di Affari Internazionali è furibondo: “Cancellare l’accordo sul nucleare – dichiara – è stato un errore. La direzione intrapresa ora potrebbe provocare un vero disastro nel Medio Oriente. E in quella regione di disastri ne abbiamo già visti troppi”.
9.1.2020